Non è l’ingresso di un nuovo designer. È l’innesto di una nuova grammatica del pensiero. L’arrivo di Demna alla guida creativa di Gucci non rappresenta semplicemente una svolta estetica, ma segna un passaggio di fase: la moda non cerca più solo immaginari, ma strumenti per comprendere la complessità del presente. Cosa significa affidare il codice genetico di una delle maison più potenti del sistema globale a un autore che ha fatto del cortocircuito tra lusso e trauma, tra eccesso e sottrazione, il suo territorio operativo? Demna non è una scelta di rottura. È una scelta di complessità. Un atto di intelligenza strategica, che porta Gucci in una nuova dimensione linguistica. Il suo lavoro non chiede consenso. Chiede posizione.
Chi ha voluto Demna — e qui va riconosciuta una intelligenza precisa e raffinata da parte di Francesca Bellettini, Deputy CEO di Kering, e di Stefano Cantino, nuovo CEO di Gucci — ha compreso che la posta in gioco oggi non è solo la forma del prodotto, ma la forma del pensiero. Non più l’oggetto del desiderio, ma la sua decostruzione. Non la narrazione, ma il suo dispositivo.
Demna è, da sempre, l’autore più vicino all’arte contemporanea tra i grandi fashion designer.Le sue sfilate non sono semplici show, ma installazioni ambientali e psichiche, pensate come performance sullo statuto stesso dell’identità. Dalla neve artificiale dell’eco-apocalisse alle passerelle immerse nel fango, fino alle scenografie vuote, bianche, silenziose, in cui il corpo si smaterializza, Demna costruisce scenari che si collocano tra la distopia digitale e il teatro concettuale. Ha collaborato con figure come Sissel Tolaas, artista olfattiva con cui ha costruito ambienti scent-based disturbanti e immersivi, e con Eliza Douglas, performer e alter ego visivo della sua estetica. I suoi show sono spesso sonorizzati da Aphex Twin, e attraversati da atmosfere noise, iperrealiste, visivamente inquietanti.
L’immaginario si nutre dei lavori di fotografi come David Sims, Roe Ethridge e Katerina Jebb, ma anche delle atmosfere grafiche di Subliminal Projects. Ogni elemento è parte di una costruzione curatoriale, intermediale, espansa.
Il suo vocabolario estetico è post-traumatico, post-social, post-ironico. Ma è soprattutto profondamente visivo e teorico. E questa sensibilità, innestata nel DNA fluido di Gucci, può diventare esplosiva. Perché Gucci è sempre stata un marchio contaminabile, permeabile, capace di mutare.
Demna non è il designer “anti-lusso” come spesso è stato raccontato. È, semmai, il nuovo lusso stesso, riscritto come linguaggio critico e affettivo. Un lusso che non consola, ma espone. Che non idealizza, ma osserva. Che non vende sogni, ma realtà dislocate.
“My job is not to make you dream. It’s to make you see,” ha detto. È un programma. Ed è una sfida. Gucci, in fondo, è il luogo perfetto per questa operazione. Un brand proteiforme, instabile, storicamente capace di attraversare crisi e rinascite, da una visione all’altra. E ora — forse per la prima volta — pronto a non rappresentare il desiderio, ma a riscriverlo. Ciò che ci aspetta non è una rivoluzione immediata, ma una destrutturazione progressiva dell’immagine. Una ricomposizione del corpo vestito come spazio critico. Un lusso che si fa pensiero e non più solo promessa.
Demna non entra in Gucci per vestire. Entra per smontare e riassemblare. Per costruire una nuova architettura del senso. Ogni taglio, ogni materiale, ogni gesto parleranno un’altra lingua. E sarà una lingua affilata, stratificata, intima.
Il suo arrivo è un’operazione culturale, non solo creativa. Un investimento sul pensiero, sulla tensione, sulla profondità. Gucci, oggi, non si accontenta più di essere un segno. Vuole tornare a essere un dispositivo di visione. E questo, nel paesaggio confuso della moda contemporanea, è già un atto rivoluzionario.