Il Collezionista / Una conversazione con Enea Righi di

di 5 Giugno 2025

“Il Collezionista” è una sezione strutturata in una serie di interviste alle personalità che costituiscono il collezionismo italiano, è un campionamento di attitudini, gusti, visioni che mostra la varietà e le peculiarità delle collezioni.

Cristiano Seganfreddo: Come hai iniziato a collezionare arte? Colpo di fulmine o lenta ossessione?
Enea Righi: Credo ci siano entrambe le componenti a cui aggiungo la curiosità. Tutto è iniziato con una mostra sul costruttivismo russo, un’esperienza immersiva che mi ha rivelato la forza dell’arte in tutte le sue forme: non solo opere pittoriche, ma anche progetti scenografici, costumi, fotografie…Da lì è nata un’attrazione crescente, che si è trasformata in una passione costante. Penso che in ognuno di noi esista, in potenza, una vocazione al collezionismo: a volte resta latente, altre trova il modo di emergere.

CS: Qual è stata la tua prima opera?
Te la ricordi ancora?
ER: Certamente, il primo amore – come si suol dire – non si scorda mai. È stata una grande tela di Mario Schifano, una rilettura in chiave pop del velocipede della Gončarova. Mi colpì la forza esplosiva dei colori e l’energia vibrante che trasmetteva. È stato il mio primo vero approccio con la pittura, e da lì è iniziato tutto.

CS: La tua collezione ha un forte legame con la ricerca concettuale e politica. Quanto è stato istintivo e quanto strategico questo orientamento?
ER: Non saprei dire perché le mie scelte sono sempre state libere da vincoli. Probabilmente, in modo inconsapevole, sono attratto da opere a volte più enigmatiche, più misteriose e spesso legate a questioni urgenti, senza un intento consapevole.

CS: C’è un’opera che hai inseguito a lungo e poi hai perso? O peggio…rifiutato e poi rimpianto?
ER: Ero giovane, all’alba del mio percorso da collezionista, quando mi offrironO L’ Annunciazione di Gerhard Richter. Un capolavoro. Il prezzo era adeguato al suo valore…ma decisamente fuori portata per le finanze di un trentenne con molti sogni. L’opera fu acquistata dal Hirschhorn Museum, e anni dopo l’ho rivista al Beyeler: splendida, come la ricordavo. L’ho salutata come si fa con un amore perduto per troppa prudenza.

CS: Cosa ti fa dire “questa la voglio” in un secondo?
ER: Di solito capisco subito se un’opera mi interessa: l’intuizione è rapida. Deve intrigarmi a prima vista, colpirmi senza mediazioni. Poi cerco di approfondirne il senso, ma la scintilla iniziale è fondamentale. Allo stesso tempo, per me è importante anche il contesto: il rapporto con il gallerista, la coerenza e la visione del programma espositivo. Se sento sintonia con quel percorso, allora seguo con attenzione e scelgo ciò che davvero sento mio.

CS: Un artista sottovalutato su cui punteresti tutto?
ER: Se parliamo degli artisti attivi tra gli anni ’60 e ’70, ce ne sono molti sottovalutati o dimenticati. Ma non credo che ci sia spazio per tutti, e forse in alcuni casi ci sono motivi concreti dietro quell’oblio. Oggi certe riscoperte rispondono più a logiche di mercato che a un reale valore artistico: spesso ci sono magazzini da svuotare, e la patina del tempo finisce per conferire importanza anche a opere che all’epoca erano già deboli. La storia dell’arte, però, dovrebbe essere selettiva, non nostalgica. Se parliamo di artisti contemporanei, molti vivono un successo rapido, spesso legato a fenomeni di moda o ai meccanismi — a volte perversi — del mercato e delle aste. È un’ascesa fulminea che può trasformarsi in caduta altrettanto veloce: dalle stelle alle stalle nel giro di pochi anni. Come sempre, sarà il tempo a fare il suo lavoro, separando ciò che ha sostanza da ciò che è solo rumore.

CS: Come vedi il mercato dell’arte oggi, dopo i vari cambiamenti degli ultimi anni?
ER: Il mercato dell’arte oggi è vastissimo e spesso caotico, spinto dall’ingresso di nuovi continenti e capitali freschi. Ma questa espansione non significa sempre qualità o profondità. Troppo spesso si acquista per investimento o per seguire un trend, senza capire davvero le opere o rispettare la propria tradizione culturale. Credo che il collezionismo autentico debba essere un atto consapevole: l’arte parla un linguaggio universale, ma sta a noi scegliere ciò che realmente comprendiamo e sentiamo nostro, non inseguire illusioni o speculazioni.

CS: La tua collezione è nota per la sua coerenza tematica. Credi che una collezione debba seguire un filo conduttore preciso?
ER: Non credo che una collezione debba necessariamente seguire un filo conduttore rigido o prestabilito. Nel mio caso, la coerenza tematica non è il punto di partenza, ma piuttosto la conseguenza naturale di ciò che cerco in un’opera. Sono attratto da lavori che mettono l’essere umano al centro, che parlano della condizione umana, delle difficoltà del vivere, ma anche di una speranza possibile. In questo senso, la mia collezione è uno specchio del mio percorso interiore: raccoglie domande, emozioni e visioni che l’arte mi restituisce, soprattutto rispetto al futuro.

CS: L’opera più provocatoria o controcorrente che possiedi?
ER: Nella mia collezione ci sono diverse opere che affrontano temi legati alla diversità e all’identità, spesso in modo provocatorio. Tra queste, una delle più forti è sicuramente l’installazione If I Were a German di Boris Michajlov, che non è mai stata esposta nelle mostre della collezione a causa della sua natura estremamente esplicita. Si tratta di una sequenza di 32 fotografie con relative didascalie in cui l’artista, insieme alla moglie e due amici, inscena le violenze, le perversioni e gli abusi effettuate dai tedeschi in fuga alla fine della guerra. Non c’è nulla di compiaciuto o volgare: è una sorta di rappresentazione teatrale, ma dall’impatto durissimo — come un pugno nello stomaco. Un’opera che obbliga a confrontarsi con la complessità della memoria storica, della colpa e con i limiti della rappresentazione.

CS: Se dovessi salvare solo un pezzo della tua collezione, quale sarebbe?
ER: Senza esitazione, Golden Ring di Jiří Kovanda. Una rosa rossa trafigge un muro: da un lato il fiore, dall’altro il gambo immerso in un bicchiere d’acqua, accanto a una fede d’oro. Un gesto minimale ma carico di senso, che tiene insieme fragilità e permanenza, visibile e invisibile, amore e memoria. Un’opera che sintetizza, con estrema semplicità, la tensione tra vita e arte, materia e sentimento. Se dovessi salvarne una sola, sarebbe questa.

CS: Hai dato in prestito a lungo termine parte significativa della tua collezione al Museo Museion di Bolzano. Quanto è importante per te il rapporto tra collezione privata e fruizione pubblica?
ER: Credo profondamente nella funzione pubblica dell’arte, che per me si lega anche a una concezione di responsabilità sociale: restituire alla comunità una parte della propria fortuna. Per questo considero fondamentale il rapporto tra collezioni private e fruizione pubblica. L’arte non deve rimanere chiusa nelle stanze dei collezionisti, ma deve dialogare con il pubblico, arricchire il dibattito culturale e contribuire alla formazione collettiva.

CS: Il tuo ruolo in Arte Fiera Bologna ha segnato un momento importante per la manifestazione. Che visione avevi per la fiera e per Bologna come città d’arte?
ER: Il legame con la mia città è nato spontaneamente, quasi come un dovere naturale. La mia esperienza nel marketing mi ha dato gli strumenti, ma è stata la passione per l’arte e la consapevolezza delle opportunità a farmi accettare questa sfida con entusiasmo. La mia esperienza e la serietà guadagnata come collezionista mi hanno permesso di costruire rapporti solidi con collezionisti e gallerie, facilitando questo percorso.

CS: Come vedi il futuro delle fiere d’arte in Italia nel panorama internazionale?
ER: Non ho la sfera magica, ma una cosa è certa: le fiere non hanno perso la loro funzione. Restano fondamentali, perché offrono alle gallerie e ai collezionisti un’occasione unica di incontro e confronto. Quello che non devono diventare sono semplici salotti o vetrine riservate solo alle gallerie più potenti. Servono cambiamenti strutturali che permettano anche alle realtà medie e piccole, spesso le più interessanti dal punto di vista della ricerca, di potersi esprimere — anche economicamente. Siamo in una crisi reale, ma l’arte ha sempre vissuto cicli di flessione. Forse è proprio questo il momento di rimettere al centro la qualità e il giusto equilibrio tra valore artistico e prezzo.

CS: La tua collezione ha un forte accento sulla ricerca e sulle pratiche sperimentali. Come si bilancia questo con il mercato, spesso più orientato a opere
”sicure”?
ER: Il mercato dell’arte è per sua natura incerto, soprattutto nel breve termine. Per me collezionare significa innanzitutto dare valore a ciò che mi colpisce, a ciò in cui credo. Non inseguo le mode né il rendimento immediato. Scelgo opere che ritengo significative, capaci di parlare al presente e, forse, al futuro. Sarà il tempo a dire se queste scelte avranno anche un riscontro economico, ma non è quello il mio primo obiettivo.

CS: L’arte che ami di più è quella che capisci o quella che ti sfida?
ER: Decisamente quella che mi sfida a capire. L’arte che amo di più non si concede subito, mi costringe a mettermi in gioco, a tornare, a riflettere. È un dialogo aperto, non una risposta immediata. Ed è proprio in quella complessità che trovo il vero piacere.

CS: Se dovessi spiegare la tua collezione in tre parole?
ER: Impegno: opere che affrontano temi come la giustizia sociale, l’identità e le tensioni del nostro tempo; Umanità: l’essere umano, esplorato attraverso il corpo, le emozioni e le relazioni. Le opere riflettono una profonda indagine dell’esperienza umana; Visione: La collezione è guidata da una ricerca personale, che privilegia l’arte come strumento di riflessione e trasformazione, al di là delle mode o delle logiche di mercato.

CS: Il tuo rapporto con gli artisti è sempre stato molto stretto.
Quanto influisce nella tua attività di collezionista?
ER: Non è necessario, anzi. Preferisco conoscere l’artista attraverso le sue opere, piuttosto che via diretta. A volte l’incontro può aggiungere profondità, ma altre può essere una delusione. L’opera resta, l’autore cambia: per me il vero dialogo è sempre con il lavoro.

CS: Il consiglio che daresti a chi vuole iniziare a collezionare oggi, in un mercato così complesso?
ER: Direi: coltivate la curiosità, informatevi, studiate, ascoltate, osservate, ma soprattutto lasciatevi guidare dalla passione. Costruite relazioni con galleristi che vi stimolano, seguite i percorsi che vi emozionano. E non abbiate paura di osare: serve sempre un pò di follia per iniziare davvero a collezionare. È lì che nasce il vero dialogo con l’arte.

CS: C’è un pezzo in un museo che consideri fondamentale per la tua formazione come collezionista?
ER: Può sembrare anacronistico, ma Il Cristo sulla croce di El Greco è stato fondamentale. La tensione espressiva, quel senso di verticalità che sfida il tempo e la materia. Mi ha fatto capire che il corpo può essere un linguaggio universale, capace di esprimere tutto: dolore, resistenza, trascendenza. È lì che ho compreso, quanto profondamente l’arte possa toccare ciò che è invisibile e parlare sempre al presente.

CS: Cosa distingue, secondo te, un collezionista da un semplice compratore d’arte?
ER: La differenza fondamentale sta nell’intento e nella visione. Il compratore acquista un’opera spesso con criteri di gusto, investimento o decorazione, talvolta seguendo le tendenze del momento. Il collezionista, invece, costruisce un percorso: ogni opera entra in dialogo con le altre, risponde a un interesse profondo, a una ricerca personale, culturale o esistenziale. Collezionare è un atto di costruzione e di memoria: significa dare forma a un pensiero attraverso l’arte.

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Cristiano Seganfreddo