È un amore odio il mio – mi dice Sara Ravelli – per la condizione dell’infanzia.
Solo dopo una lunga conversazione scopro che è stata per qualche tempo anche maestra. Mi racconta di come un bambino, notando per la prima volta le sue lentiggini, credesse di aver scoperto un mostro: ti rendi conto – ride – sono incredibili, vedono cose che non vediamo.
Eppure c’è qualcosa che risuona immediatamente, nel suo fare arte, con le atmosfere dei giochi infantili, qualcosa tra il divertito e il grottesco, lo spettacolo esilarante di pupazzi deformi che si prendono a bastonate, o una fiaba dei fratelli Grimm. Così come il corvo di cartapesta del suo Merry-go-round (2025), continua a ruotare su se stesso, illuminando i muri che lo circondano con la torcia che ha in bocca: è una sentinella, un protettore o un secondino il cui girotondo poco si incastra con la serenità di un gioco. Ma così è, nelle sue origini: nient’altro che un dettaglio di cartapesta di un carro di Carnevale. Il Carnevale di Crema, città di origine di Ravelli, a cui partecipava il nonno dell’artista, insieme a una squadra di colleghi operai. Sono loro ad aiutarla a dare forma al corvo, così come a un’altra opera: The hand, a home, OUCH! (Repeat) (2024). Originariamente parte di un personaggio semovente di cui rimane meno della metà della cassa toracica. The hand, a home, OUCH! (Repeat) è tutto gesto, teatrale, estenuante – la punizione a un bambino, la sua reazione di dolore e di rabbia e forse di scherno, perché la mano è lentissima, il gesto spezzato, e non lo raggiungerà mai. Mi dice Sara: potrebbe essere uno schiaffo che hai dato o quello che hanno dato a te.
C’è una violenza ovattata, così esplicita e sardonicamente esasperata da non fare più paura: uno spettacolo che attira fino a quando non è troppo tardi, finché devi ascoltare quello che ti dice. Come se dovessi spiegare a un bambino la violenza del sistema in cui viviamo.
Se dovessi spiegarla a un bambino semplicemente non lo farei – dice- così come non la spiego agli adulti. Mi piace che il lavoro abbia dei buchi. Quando una cosa è troppo esplicita, non permette spiegazione, mi interessa poco. Come non mi interessa fare le cose che so già fare. Quando ho iniziato a cucire, i fili erano lassi, le congiunzioni imprecise: ora che ho imparato a farlo quel linguaggio si è depotenziato. Parla di meno. Potrei dire che le cose mi interessano quando le sto imparando.
Ritorno a quella parte della vita in cui il mondo è tutto nuovo, è aperto, non ancora perdutamente inconoscibile e mi diverte la ricorsività del nostro discorso, ma forse è solo un’ossessione: dell’infanzia a me questo è rimasto. C’è quel margine di possibilità che poi, nell’esistenza adulta, nella vita lavorativa come la conosciamo diventa poco praticabile. Forse per questo coltivo una nostalgia pre illuminista, per quando i saperi erano meno compartimentati, e i matematici potevano essere alchimisti e poeti e pittori e viceversa.
Pensavo l’avessi anche tu, sai, quando parli delle tue sculture in ceramica in cui orsi e rane si estraggono i denti l’un l’altro (No Teeth Left, 2023) come nato dall’osservazione delle rappresentazioni di animali in pose umaneggianti, comiche e grottesche. Pensavo ti riferissi alle miniature medievali, con i loro gatti cuochi e le lumache combattenti.
In realtà – dice – nasce da una visita a un museo di rane tassidermizzate in Svizzera, dove ho studiato. Tableaux vivants di centinaia di rane che svolgono le operazioni più assurde. C’era qualcosa di esilarante, che per un momento ti faceva dimenticare dei corpi morti, probabilmente appositamente uccisi, che avevi di fronte. Ma era poi l’incuria, la sabbia che usciva dalle pelli che avrebbero avuto bisogno di un restauro a riportarti alla realtà della loro violenza subita.
Il non saper fare – di nuovo – che solleva il velo, che scopre il teatro. Continuiamo a tornare a una performance di personaggi che gridano, si lamentano; una specie di farsa del dolore che invita ad avvicinarsi, a cercare di capire di cosa, in realtà, stanno parlando. Come un’altra serie di sculture in ceramica, Why me? (2024): tre ceppi di cavolo le cui foglie sembrano rappresentare tre volti angosciati dalla possibilità di essere raccolti:
– Wait, weren’t there six of us?
— The other three have already left
— Departed
— Set sail
— Someone must have simply selected them
— It can’t be worse than this
— That’s all you can hope for
— We are suffering
— Exhausted
— All rumpled
— In sadness we falter
— Let’s dance
— Let’s plan
— It happened eventually
Dicono, con le parole di Mattia Agnelli composte per la mostra “OUCH!”, presso BAR, Torino.
È curioso che io non abbia mai pensato al mio lavoro come performativo. Forse solo una performatività latente
Mentre parliamo siamo sedute a un tavolino. Sul legno leggermente appiccicoso sono incise le linee di un campo da calcio sovrapposto a una scacchiera. Mi sembra una buona metafora per questa incrinatura di movimento e stasi, azione e pensiero. Mi chiedo: come altro può una performatività essere latente?
Quello che voglio dire è che spesso quando compongo una mostra mi trovo a voler inserire un elemento che è vivo, forse deperibile, forse semplicemente appartenente a un regno che esonda quello umano. In The Special Threat (2021), ad esempio, un’installazione dedicata all’addomesticamento e al rapporto premio-compensazione degli animali in cattività, l’aria era pervasa di un odore realizzato per l’occasione. La stanza sapeva di stalla, di chiuso, di corpi prossimi uno all’altro. O in Tamed Love (2020), un’altra serie di opere dedicata ai rapporti di potere e affetto con gli animali, in particolare i cavalli, il pavimento era segnato da pozze di sale. Un elemento evocativo che in qualche modo attivava lo spazio: per i cavalli un nutrimento, per gli esseri umani una specie di connessione istantanea con il sudore, con le lacrime.
Mi convinco quindi che la latenza abbia qualcosa a che fare con i tempi, la cronologia umana di un evento, di una mostra, e la performatività non organica di un deperimento possibile ma geologico, minerale: esiste, ma probabilmente non riusciremo mai a riconoscerla. Una performatività delle particelle, come se il corpo altro – animato o inanimato – potesse essere osservato nella profondità scomposta del suo essere, per poi ricomporsi improvvisamente nel gesto teatrale: sudare, piangere, soffiarsi il naso.
In questo momento sto lavorando a una serie di pezzi che evolvono da Allegro ma non troppo (2023), un campanello che è uno strumento musicale ma anche, a volte, un oggetto legato al collo degli animali, ingigantito e svuotato della sua funzione – quasi un richiamo magico, una voce propria – per diventare un distributore di fazzoletti. Di quelli che si trovano sulle macchine, per comodità, o negli studi dei terapisti, per emergenza. Un gesto che inizia e finisce nella sua funzione, ma anche un minuscolo rituale domestico di consolazione. Il lavoro nasce così, per evocazione, per associazione, dalle storie che richiamano gli oggetti che ci circondano.
Un po’ come fanno i bambini quando inventano delle storie – dico. E ricominciamo da capo.