Introduzione
Lasciatemi essere sincero: prima dell’invasione su larga scala della Russia in Ucraina, non avevo mai sentito la necessità di sottolineare la mia provenienza nel contesto del mio lavoro. Nel 2015 mi sono trasferito a Torino per frequentare un corso di pratiche curatoriali ed ho iniziato a collaborare con artistə italianə e internazionali. Nonostante in questo lasso di tempo le crisi in Ucraina siano sempre state presenti, a me non è mai interessato renderle centrali nella mia pratica curatoriale. Credo che dipenda da un fattore personale comune a me e molte altre persone con un background post-sovietico: è un senso di inadeguatezza, una sorta di inferiorità interiorizzata. Nonostante la vicinanza geografica, per l’”Europa” — o il cosiddetto Occidente – noi a Est rimaniamo sempre gli Altri. Il sentimento che accomuna molte persone come me è quello del costante bisogno di avere conferme, essere all’altezza, o almeno questo è ciò che sentivo fino all’invasione del 24 febbraio 2022.
Da quel momento, la mia prospettiva è iniziata a cambiare radicalmente. Come moltə altrə, sono stato costretto a confrontarmi con l’aggressione coloniale — non più come una questione geopolitica distante, ma come qualcosa di reale, tangibile. Vivendo in condizioni di “sicurezza” — in grado di lavorare e, anzi, con nuove opportunità che emergevano nonostante, e simultaneamente anche grazie alla crisi — sono diventato più consapevole dei miei privilegi. Da una parte, questo ha coinciso con una crescente consapevolezza dell’identità nazionale, alla quale mi sento legato; dall’altra, ha acceso un rinnovato senso di appartenenza, persino di orgoglio, ricalibrando anche il modo in cui guardo all’altro.
Ciò che mi ha colpito di più durante questi tre lunghi anni di guerra non è stata solo la violenza — ma la scomoda neutralità di moltə colleghə. In Italia, le radici di sinistra e il forte sentimento anti-americano contribuiscono a far sì che la retorica pacifista, in alcuni casi, finisca per offuscare la lettura concreta della realtà.
E per questo motivo, e per far chiarezza “sulla guerra” e su cosa voglia dire accettare la necessità di “aiutare” l’Ucraina, ho capito che era arrivato il momento — dopo più di dieci anni — di affrontare quel passato che avevo messo da parte. L’invito a curare una mostra presso eastcontemporary a Milano è arrivato al momento giusto. Per lə artiste in mostra — tuttə provenienti dall’Europa dell’Est — il conflitto non è distante, è vicino; favorendo tra di noi un senso di forte empatia. Esplorando questi temi, mi sono riavvicinato agli scritti di Agata Pyzik. Il suo libro ormai iconico Poor But Sexy: Culture Clashes in Europe East and Wes (Zero Books, 2014), prende il titolo dalla famosa descrizione di Klaus Wowereit della Berlino post-Muro. Pyzik riprende e riformula la frase riportando la critica su come l’Est sia stato esotizzato, romanticizzato e infine mercificato dall’Occidente, soprattutto dagli anni Novanta in poi.
Ciò che rende questa pubblicazione così unica, dal mio punto di vista, è il suo rifiuto di ridurre l’esperienza dell’Europa dell’Est a un cliché, offrendo una voce vera — anche se vulnerabile — capace di abbracciare le contraddizioni e perciò resistere a categorizzazioni facili. Proprio come qualcuno che cerca di ritagliarsi spazio nell’affollato panorama artistico europeo, ho trovato dolorosamente familiari le riflessioni di Pyzik sulle gerarchie invisibili. “POOR BUT SEXY” così è diventato il titolo della mostra collettiva che ho curato e molto di più: ne ho fatto un riferimento, un manifesto, un modo di definirci.
Il libro è stato al centro del talk che si è tenuto durante miart il 5 aprile scorso, come parte del programma pubblico della mostra; e qui vogliamo continuare la nostra conversazione, approfondendo le eredità irrisolte di una trasformazione post-socialista, l’illusione del progresso occidentale e raccontare la violenza geopolitica che sta ridisegnando i confini culturali — non solo sulle mappe, ma anche all’interno di istituzioni, estetiche e soggettività.
Sergey Kantsedal: Vorrei iniziare tornando al momento in cui ci siamo conosciuti — a Milano, durante il tuo talk. Ci siamo trovati in posizioni simili ma distinte: io da una prospettiva curatoriale, tu da una più critica e teorica; io tra Ucraina e Italia, tu tra Polonia e Regno Unito. Eppure entrambi occupiamo una posizione intermedia tra le dinamiche culturali dell’Est e dell’Ovest. Considerando che il tuo lavoro è ampiamente riconosciuto a livello internazionale —risuonando forse di più in Occidente che nella tua regione di origine — come ti senti a essere dell’Est mentre ti rivolgi principalmente a un pubblico occidentale?
Agata Pyzik: In realtà, è una fonte di preoccupazione. Ovviamente, mi piacerebbe poter trovare quanti più lettori polacchi possibili ed essere ascoltata da loro, ma la realtà è che ho scritto questo libro in un momento e in un luogo specifici. Non sarebbe stato possibile senza l’inglese come mezzo universale di comunicazione e senza il Regno Unito stesso. Quando sono arrivata, all’inizio degli anni 2010, il Regno Unito era un luogo molto interessante; i ‘Tories’ (Conservative Party) avevano appena vinto le elezioni dopo molti anni di governo laburista e le persone si stavano svegliando da un lungo periodo di depoliticizzazione. Il New Labour aveva reso le persone compiacenti, la loro vittoria nel 1997 era stata definita “la fine della storia”, dove tutti gli sconvolgimenti e le preoccupazioni del passato politico erano scomparsi. Improvvisamente c’è stato il crollo finanziario del 2008-2009, le tasse universitarie sono aumentate del 300% e le persone hanno iniziato a rendersi conto di aver sprecato il radicalismo politico del passato per l’illusione di una vita facile, dove classe e razza presumibilmente non contavano più. Beh, peccato: gli inglesi si sono svegliati, e poi molti altri hanno iniziato a farlo: la Spagna e la Grecia hanno avuto nuovi governi di sinistra e hanno criticato l’UE, c’è stata la Primavera Araba, ecc. Mi sono ispirata all’ondata di proteste a cui ho partecipato, rendendomi conto che la politica contava — anche in Polonia ci stavamo adagiando, con il partito neoliberale al potere e le persone che non si preoccupavano se privatizzavano tutto o esportavano la disoccupazione nei paesi più ricchi dell’UE. Tutto ciò che ai nuovi paesi dell’UE interessava dell’Europa dell’Est era la facciata di un paese “di successo”, e in questo la Polonia era ovviamente il fiore all’occhiello.
Vivendo in uno dei paesi più ricchi del mondo (il Regno Unito), la cui stessa immagine si stava sgretolando davanti ai miei occhi, ho capito pienamente la grande menzogna del “progresso” capitalista e ho iniziato a scavare più a fondo nel passato della mia regione. Penso che l’esperienza di questa “delusione” nell’Occidente sia condivisa dai miei coetanei in molti altri paesi dell’ex Est, ovvero paesi che appartenevano all’Est comunista durante la Guerra Fredda. La bugia che ci è stata venduta è che se avessimo lavorato abbastanza duramente saremmo diventati come l’Occidente — non è mai successo ovviamente, e non succederà mai. In realtà, ricevo ancora molto interesse da altri paesi dell’Est che non sono necessariamente la Polonia. Mi sembra che il libro ha risuonato con molte persone in Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Ungheria, ma anche in Ucraina; e allo stesso modo, penso che risuoni con persone dell’Occidente che non provengono dalle parti più ricche, per esempio Spagna o Italia. Questo è lo specchio di come l’Europa occidentale non è mai stata uguale per tutti e alcuni paesi del blocco occidentale hanno subito dittature e sistemi politici corrotti, che li hanno piano piano marginalizzati nell’arena europea.
Il mio libro parla dell’esperienza di vita condivisa nell’incontrare il capitalismo occidentale fin da quando eravamo bambini e come è stato crescere con l’illusione di falsa promessa di benessere, che non è mai stata mantenuta. Abbiamo imparato a nostre spese che non saremmo mai stati come loro.
SK: Scritto più di dieci anni fa, nel 2012-13, il tuo libro offriva una prospettiva acuta, personale e critica sull’intreccio tra l’Est post-comunista e l’Occidente neoliberale. Più di un decennio dopo, mentre l’Europa dell’Est ha visto progressi economici e l’Occidente sembra intrappolato in una crisi ideologica, come riformuleresti la questione della disuguaglianza Est-Ovest?
AP: La mia visione delle idee nel libro è cambiata tante volte nell’ultimo decennio — anche perché ovviamente è stato un periodo molto dinamico. Il fulcro del cambiamento si è rivelato essere l’Ucraina, che stava subendo una trasformazione storica — e un attacco alla sua stessa esistenza — in un modo così spettacolare che poteva essere paragonato solo al 1989/1991 e al crollo dell’Unione Sovietica. C’è un’incomparabilità dell’esperienza tra la parte del Blocco Sovietico che è stata “autorizzata” a unirsi all’Occidente con l’adesione alla NATO e all’UE e la parte che non lo è stata. La nostra regione è ciò che Immanuel Wallerstein considera semi-periferia e il progresso lì — o come lo si vuole chiamare — è avvenuto in modo protratto e disturbato. Siamo prodotti di uno “sviluppo combinato e diseguale” — sia le rivoluzioni socialiste che capitaliste ci sono capitate quando le nostre società, ancora in balia di forme più antiche di ordine sociale, non erano pronte.
Poi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, alcuni paesi sono stati invitati a partecipare alle strutture capitaliste e istituzionali occidentali e altri no. Come sappiamo, questo percorso verso l’Occidente è stato anche di enorme sfruttamento — ma lo sfruttamento capitalista in Ucraina è stato eseguito dalla Russia, non dall’Occidente. Oggi si può speculare su cosa sarebbe successo se dopo il 1991 l’Ucraina fosse stata autorizzata a modernizzarsi seguendo la modalità capitalista e neoliberale, proprio come ha fatto la Polonia, e che tipo di paese sarebbe oggi. Guardiamo la Polonia per esempio. Siamo probabilmente più ricchi di quanto lo siamo mai stati, sembriamo essere considerati più seriamente nel contesto internazionale, e dovremmo diventare uno dei cinque paesi principali nel programma di costruzione dell’esercito europeo. Ma guadagniamo ancora brutalmente poco rispetto ai nostri omologhi occidentali, e siamo ancora una preziosa fonte di manodopera a basso costo per l’Europa occidentale. Ad ogni modo, capisco perché l’Ucraina guardi alla Polonia oggi e pensi: potremmo essere come loro, potremmo far parte dell’Occidente ed essere più moderni e indipendenti. Questo è curioso. Tra due giorni in Polonia ci sono le elezioni che molto probabilmente saranno vinte da un candidato di destra conservatore, che non ama troppo l’Ucraina, che è contrario all’ingresso dei migranti attraverso il confine bielorusso, che detesta profondamente le persone LGBT e l’idea dei loro diritti, per non parlare dell’aborto. Puoi leggerlo come vuoi, ma sicuramente più occidentalizzazione non equivale a visioni più moderne e progressiste. O, come dico nel mio libro, ai paesi occidentali è permesso un capitalismo “migliore”, più influenzato dalla democrazia sociale, con un briciolo di diritti dei lavoratori, ecc., che a noi non è stato concesso. Abbiamo perso l’assistenza sanitaria gratuita e i benefici sociali e in cambio abbiamo avuto la privatizzazione di tutto. Se l’Ucraina avesse avuto il sostegno di cui aveva bisogno venticinque anni fa, avrebbe ancora problemi. Ma almeno non ci sarebbero missili che ti cadono in testa.
SK: Parliamo ancora della guerra in Ucraina e di come sta riconfigurando le dinamiche culturali e geopolitiche. In recenti conversazioni che mi è capitato di avere con artisti provenienti da Polonia, Lituania, Romania e oltre, sono stato colpito da come molte voci dall’Est non solo comprendano la complessità di ciò che sta accadendo, ma prendano anche una posizione molto chiara al riguardo. Non è qualcosa che posso sempre dire dei miei colleghi occidentali, anche se questa non è una critica ma un’osservazione di come la prossimità — geografica, culturale e sociale — inevitabilmente modella le prospettive. Dato il conflitto in corso e l’apparente incapacità dell’Europa di intervenire direttamente — in parte per le ragioni politiche e storiche che hai indicato — come il conflitto ha cambiato la tua visione delle dinamiche di potere nella regione? E come vedi questa guerra ridisegnare l’Europa — politicamente, culturalmente, simbolicamente?
AP: Qui devo ammettere un paio di cose un po’ scomode. Alcune delle persone che ho detestato di più negli ultimi 15-20 anni sono intellettuali liberal-conservatori statunitensi, che hanno passato decenni a diffondere paure sulla Russia. Parlo qui di un tipo specifico di intellettuali-guerrieri come Anne Applebaum, che dal momento in cui ha coperto la fine del comunismo in Polonia nel 1989 come giornalista, ha dedicato tutta la sua carriera a dimostrare come l’ex Est dovrebbe recidere completamente i legami con il proprio passato comunista e abbracciare il neoliberismo occidentale, sottomettendosi agli Stati Uniti.
Essendo uno dei paesi più filo-americani al mondo, la Polonia, per esempio, ha inviato i nostri soldati in ogni guerra statunitense nel mondo, ha permesso basi NATO e prigioni della CIA, dove sono avvenute torture di persone innocenti sospettate di essere terroristi mediorientali. Quindi sì, provengo da questo background e non me ne vergogno, e anche di fronte alle azioni completamente abominevoli della Russia in Ucraina, ciò che mi preoccupa è che perderemo di vista quella prospettiva — l’influenza imperialista degli Stati Uniti. Certo, ora Trump tratta male Zelensky e si avvicina a Putin, ma non dovrebbe essere visto come un’anomalia — gli Stati Uniti sono un impero, che ha sempre considerato prima di tutto i propri interessi e la propria posizione nel mondo, e lui che cerca di umiliare l’Ucraina ora per ottenere i suoi “grazie” è solo la rivelazione del rapporto che gli Stati Uniti hanno con molte parti più povere e meno sviluppate del mondo. Guarda i loro tentativi di depredare l’Ucraina delle sue risorse naturali. Non hanno alcuna vergogna, perché questo è ciò a cui sono abituati. Loro prendono e noi doniamo. Stanno reclamando il nostro debito.
Penso che molte persone abbiano avuto un’illuminazione la mattina del 22 febbraio 2022, me compresa. Ero tra le persone che non avevano mai pensato che il livello di fascismo in Russia fosse così grave o che avrebbero osato invadere su larga scala. Dopo di che, molti di noi a sinistra hanno dovuto fare i conti con loro stessi, ma ciò che gli ultimi tre anni hanno dimostrato non è solo l’insufficiente valutazione della minaccia reale della Russia, ma anche come funziona politicamente questo mondo. So anche benissimo che se Putin avesse preso di mira la Polonia, per qualsiasi motivo folle, l’Occidente probabilmente sarebbe intervenuto. Ed è per questo che penso che gli ucraini abbiano tutto il diritto di essere furiosi. Perché sì, l’Occidente ha dimostrato che non sono abbastanza importanti da intervenire, e non solo perché potrebbe portare a un conflitto davvero terribile.
Come ci si sente? Sicuramente, molte persone hanno imparato la storia dell’Ucraina, e molti ormai vivono fianco a fianco con i rifugiati di guerra, poiché molti ucraini si sono trasferiti in Occidente, ricevendo un corso accelerato sull’imperialismo russo. Probabilmente anche tu come me, percepisci che dopo tre anni e mezzo il pubblico generale prova una sorta di noia per questo argomento — la capacità di attenzione delle persone è disperata e la guerra, per quanto brutale, è solo parte dello spettacolo oggi — quindi l’attenzione si sta spostando. Dall’altra parte però la Russia di Putin è stata davvero completamente screditata dall’arena internazionale — sono stati esclusi culturalmente da moltissimi eventi culturali — e questo sta funzionando molto bene e ha fatto capire alle persone come per anni ciò che promuovevano come cultura “russa” fosse spesso ucraino. Questo è quindi un momento profondamente identitario per gli ucraini stessi, che hanno imparato a difendersi, che sono persone incredibilmente forti e resilienti e la cui cultura ha acquisito molta più fiducia e potere negli ultimi anni, e penso che questo, più di ogni altra cosa, continuerà ad avere un impatto su come andranno le cose almeno a livello culturale.
SK: Parliamo di tokenismo. Dopo l’invasione su larga scala della Russia, c’è stata un’improvvisa urgenza politica e culturale di “sostenere l’Ucraina”.Dopo un’ondata iniziale di mostre, eventi culturali, residenze e acquisizioni museali, gran parte di quell’attenzione ha iniziato a scemare, come hai già sottolineato. È particolarmente significativo che molti artisti ucraini stavano affrontando temi di guerra, trauma e instabilità politica dal 2014 — l’anno in cui è iniziata la guerra in Donbass — eppure il loro lavoro è stato largamente ignorato fino a ora, quando la guerra su larga scala ha spinto l’Ucraina sotto i riflettori dei media occidentali. Cosa dice questo sul rapporto del mondo dell’arte con le crisi geopolitiche — e la sua tendenza a un coinvolgimento reattivo e a breve termine piuttosto che a un sostegno sostenuto e a lungo termine? Specialmente ora, mentre ci troviamo nel bel mezzo di un’altra crisi umanitaria.
AP: Come ho detto prima, sì, temo che questo interesse sia molto superficiale e di breve durata. Mi è piaciuto che molte persone siano venute al mio talk alla tua mostra a Milano, ma era l’art week e probabilmente per loro era solo una delle mille mostre che hanno visto per poi correre alla successiva. Questa è la natura della ‘bestia’ oggi, viviamo in una sovrasaturazione e sovrapproduzione di tutto e possiamo solo sperare di catturare l’attenzione delle persone per cinque minuti, se siamo fortunati! Tokenismo — senza dubbio! Anche noi siamo stati tokenizzati negli anni Novanta, quando la Polonia era di moda. Ad esempio, non ci sono persone polacche famose nel Regno Unito, nel settore culturale, intendo attori, comici, musicisti, artisti, ecc., nonostante quasi vent’anni di presenza di massa e un sacco di soldi che il Polish Cultural Institute ha speso regolarmente per promuoverci.
Penso che l’Ucraina debba essere disillusa e cinica riguardo al sostegno occidentale alle vostre arti: non solo perché ci sono così tanti contendenti all’attenzione, ma anche a causa del ritiro del sostegno finanziario degli Stati Uniti a molte istituzioni progettate per sostenere la cultura nei paesi vulnerabili. Ci sono anche problemi che le istituzioni occidentali affrontano in “casa” — per esempio, i paesi ex colonialisti che hanno ignorato a lungo le culture che un tempo sfruttavano o colonizzavano e i cui membri sono i loro stessi cittadini, e che ora affrontano critiche per non includere abbastanza diversità nei loro programmi culturali. Penso che ci sia stato un grande movimento per svelare l’eredità dell’avanguardia ucraina dopo decenni nei quali è rimasta dimenticata e nascosta sotto la storia dell’arte russa, e su questo le istituzioni occidentali hanno ancora molto da fare. Ma in generale, l’Ucraina deve affrontarlo da sola e costruire, per quanto precarie, le proprie alleanze e istituzioni, perché ci saranno sempre culture più vulnerabili di voi e non volete costruire la vostra identità sull’essere vittime permanenti. Non è empowering. C’è già troppa auto-vittimizzazione in questo momento e non penso che sia una buona posizione. Sicuramente, ci dovranno essere programmi istituzionali di finanziamento per le arti ucraine negli anni a venire per ciò che avete passato e passerete ancora, ma la cosa più importante sarà costruire le vostre stesse reti.
SK: Per decenni, il riconoscimento degli artisti dell’Europa dell’Est è dipeso dalle istituzioni occidentali — i veri guardiani. Certo, questo sta lentamente cambiando, ma detengono ancora le chiavi della visibilità e spesso controllano e inquadrano la narrazione. Dalla tua esperienza come scrittrice e critica d’arte, come gli artisti della nostra regione navigano la tensione tra auto-rappresentazione e la pressione a performare certe identità?
AP: In realtà è piuttosto triste, ma sulla scena globale semplicemente non siamo così interessanti per loro; dovremmo accettarlo e andare avanti. Andare avanti nel costruire le nostre coalizioni e istituzioni. Recentemente ho letto una conversazione super interessante di Claire Bishop sul nuovo edificio del Museo di Arte Moderna di Varsavia. Bishop ha detto che durante la discussione sull’antologia Art and Theory of Post-1989 Central and Eastern Europe (2018) al MoMA di NYC, una studentessa polacca le ha chiesto se diventare una storica dell’arte dell’Europa dell’Est significa condannarsi a rimaere una minoranza. Non ha avuto altra scelta che confermare: c’è poco interesse nella nostra regione specifica tra i programmi d’arte più all’avanguardia: siamo considerati troppo occidentali e troppo bianchi! Siamo troppo “occidentali” e mainstream eppure troppo di nicchia e troppo periferici allo stesso tempo, non è incredibile? Se consideriamo i tempi in cui l’Europa dell’Est era di moda per le istituzioni occidentali — per l’ex Blocco Orientale il boom è stato negli anni Novanta, con mostre come “After the Wall” al Moderna Museet nel 1999 o “Ostalgia” al New Museum di NYC negli anni 2000. C’è stato anche un boom finanziario nell’arte polacca in quegli stessi anni, l’abbiamo persino chiamata Cool Art from Poland nei circoli della critica d’arte. Sai, non era buona arte, è invecchiata male. Era per lo più pittura figurativa carina, doveva essere la prova che siamo un paese “normale”, occidentale, con un mercato dell’arte.
Ricorda, nel capitalismo l’arte è parte del mercato come qualsiasi altra merce, è solo che è più costosa. Se non vogliamo essere oggettificati e feticizzati (di nuovo), dovremo andare oltre questa accessibilità sdolcinata. L’Ucraina probabilmente passerà ora attraverso la stessa fase che la Polonia ha attraversato 15-20 anni fa, voglio dire, è questo che vuoi? Il denaro è indispensabile per esistere e continuare a creare sotto il capitalismo, certo, ma ora c’è anche un momento per decidere chi vuoi essere, come ti posizioni rispetto all’Occidente? Vuoi essere l’Altro-sexy? L’arte ucraina è ora migliore e più interessante dell’arte polacca, per quello che vale, ma anche a un costo estremamente alta da pagare. È un’arte difficile da mercificare, quindi il sostegno istituzionale sarà cruciale. Quello o l’auto-costruzione, che alla fine rimane sempre l’elemento più importante.
SK: Nel tuo lavoro, sei particolarmente interessata a come il desiderio e l’estetica modellano il consumo dell’Est da parte dell’Occidente — una forma di erotismo culturale. Mentre lavoravo alla mostra da eastcontemporary, continuavo a chiedermi: è possibile parlare della easterness senza performarla? È possibile presentare l’arte dell’Europa dell’Est senza cadere nell’esotismo, negli stereotipi o nell’over-intellettualizzazione?
AP: È interessante che da questa cosa rifiutata, brutta, arretrata, la cultura popolare della nostra regione, specialmente della fine degli anni Ottanta/inizio Novanta, sia diventata qualcosa di attraente, persino sexy. Nel mio libro ho tracciato questo a partire dalla scena di Berlino, ovviamente, perché la cultura pop comunista è stata resa cool prima attraverso le feste nostalgiche di Berlino, e poi per esempio attraverso il riciclo di vecchi vestiti “vintage”, dei quali i frequentatori di feste si appropriavano consacrando questo generale shabby chic post-sovietico. In un certo senso l’abbiamo adottato e poi abbiamo realizzato che la cultura della nostra infanzia è in realtà qualcosa che, nel mondo della crescente standardizzazione, anche di tipo hipster, è veramente originale, diversa, che ci fa distinguere. Così l’Est si è reso attraente per l’Occidente — ricordo quando intorno alla rivoluzione di Maidan è diventato cool partecipare a rave a Kyiv e festival di musica elettronica in Ucraina, Bielorussia e altrove nella regione hanno iniziato ad attirare pubblico occidentale, annoiato dal clubbing in dei luoghi più consueti . Di questo aspetto luccicante ed economico si sono poi appropriati mega-brand come Balenciaga o celebrità come Kanye West e Kim Kardashian, che hanno elevato/caricaturato qualcosa che è iniziato come un cheap aspirationalism rivolto alle persone che cercavamo di emulare. Rimane ancora divertente secondo me.
E, ciò che è divertente, è che l’Europa dell’Est ha sempre amato la moda, i vestiti e certe parti materialistiche della cultura, proprio perché ne siamo stati privati per tanto tempo. Quindi per noi c’è un investimento emotivo extra in queste cose glamour. In realtà non penso che dobbiamo fare uno sforzo speciale per “performare” l’easternness. Proprio come Nikita Kadan – uno degli artisti presenti nella tua mostra – che crea oggetti d’arte dalla spazzatura, che in realtà sono i residui di guerra e che ha spiegato: “Non so se sono sexy, ma sono sicuramente povero”. Sai, non importa da quanto tempo vivo in Occidente, quanto bene parlo inglese e quanto sono integrata nella società, mi ritrovo ancora a gravitare verso l’assolutamente odiosa estetica scandinava/pulita, perché è ispirazionale per me! Non posso indossare cose trashy, mi tradirebbe per quello che sono veramente.
Ricordiamoci che l’appropriazione culturale relativa alle classi/persone povere o svantaggiate da parte dei ricchi e privilegiati è sempre avvenuta, vedi cosa è successo alla cultura ballroom e molti altri aspetti della cultura nera/queer. Penso che dovremmo vederla nella prospettiva di persone che sentono che il mondo sta finendo, dove niente importa più, e questo chic post-sovietico ha proprio quell’edginess in più, quell’attitudine in più. Amo gli europei dell’Est che possono abbracciarlo. Penso di essere solo troppo vecchia!
SK: “POOR BUT SEXY” presenta opere che, in vari modi, riflettono ciò che l’arte dell’Europa dell’Est può — e forse dovrebbe — essere, sia letteralmente che ironicamente: povera ma sexy. Le artiste presentate — Ala Savashevich, Anastasia Sosunova, Dominika Olszowy, Mila Panić, Miroslav Tichý e Nikita Kadan — coprono diverse generazioni e geografie. Che si tratti dei ritratti voyeuristici di Tichý realizzati con macchine fotografiche fai-da-te o delle mitologie lo-fi di Sosunova, le loro opere sono plasmate dall’eredità dei tempi sovietici e dalla condizione post-industriale. Pensi che oggi esista una “estetica” o un “atteggiamento” dell’Europa dell’Est?
AP: Certo, e l’abbiamo già toccato! Penso che ciò che per così tanto tempo è stato considerato mancanza di distinzione — non siamo né est né ovest, siamo in qualche modo nel mezzo, dove l’Occidente non riusciva a vedere oltre la Russia e l’Ucraina rimaneva trasparente, come la Polonia — sia il nostro punto di forza. Ora a causa della globalizzazione e del neoliberismo consumista ci stiamo tutti pericolosamente omologando. Usiamo gli stessi social media, aspiriamo a possedere le stesse cose, la stessa estetica, ascoltiamo la stessa musica, indossiamo gli stessi vestiti, ecc. È terribile. Non solo permette il peggior tipo di capitalismo sfruttatore — delle persone e del pianeta — ma uccide anche ogni differenza, identità, e tutto ciò che è speciale. Abbiamo passato decenni a immaginare i beni occidentali che non avevamo allora, e quindi di conseguenza abbiamo creato qualcosa di nostro, qualcosa spesso un po’ rotto, imperfetto, ma almeno diverso. Ecco perché la nostra musica di quell’epoca suonava diversa, il nostro look era diverso, perché nessuno aveva soldi, e quindi ci arrangiavamo.
Ma attenzione a non feticizzare questa estetica “cruda”. Restiamo con i piedi per terra, restiamo con il fatto che in realtà siamo ancora molto più poveri e che, ad esempio, il costo della vita in Polonia non è poi così inferiore a quello del Regno Unito. Penso che l’atteggiamento di cui parli — anche adesso, e sono una signora anziana, ho 41 anni e vivo nel Regno Unito da molto tempo e il mio inglese è perfetto — mi chiedono da dove vengo. Mi dicono che hanno una donna delle pulizie proveniente dalla Polonia/Romania/Ucraina. Nell’azienda che gestisce mio marito inglese c’è una signora ucraina, è una specialista di marketing, ma qui fa la sarta, perché è questa la competenza che le permette di guadagnarsi da vivere, non quella di specialista di marketing. Certo, si può dire che queste sono le leggi del capitalismo, che dobbiamo adattarci alle condizioni. Ma in qualche modo riesco ancora a fare la scrittrice, non devo fare un lavoro umile. Ma non posso nemmeno permettermi un visto, quindi lascio regolarmente il Regno Unito e non posso vedere mio marito. Ci sono difficoltà di natura geopolitica, che sono segnate dal nostro paese di origine, e non ho dubbi che il fatto di provenire dall’Europa orientale continui a influenzare il modo in cui vengo vista. Sono contenta che artisti ucraini, bielorussi, balcanici o cechi commentino questa situazione, e lo facciano in modo molto più audace rispetto, ad esempio, a 10 anni fa. Questo perché la guerra e la situazione politica li hanno resi così . Sanno di avere una responsabilità e che nessun altro parlerà per loro.