Io, collezionista. Una conversazione con Anna Maria Enselmi di

di 26 Giugno 2025

Anna Maria Enselmi ha trasformato un palazzo storico di Lecce in uno dei progetti culturali più affascinanti del panorama contemporaneo: Palazzo Luce. La sua collezione è il riflesso di una ricerca profonda, emotiva, umana. Un luogo dove arte, design, luce e memoria si intrecciano, guidati da uno sguardo estetico unico e da un’energia radicalmente femminile.

Cristiano Seganfreddo: Quando hai scoperto Palazzo dei Conti? Cosa ti ha colpito a tal punto da trasformarlo in Palazzo Luce, un luogo di arte, accoglienza e visione?
Anna Maria Enselmi: Palazzo Luce l’ho scoperto in tempi diversi. Un’estate di dieci anni fa, mentre mi trovavo nella mia casa di Castro Marina, un amico antiquario mi chiese di accompagnarlo in questo storico palazzo dove doveva consegnare delle consolle fine Settecento restaurate. Scoppia subito una forte emozione e, come dico nel docufilm, sentivo come se questa casa mi chiamasse in qualche modo!
La casa non era in vendita, ma il giorno dopo chiamai i proprietari per convincerli a cedermi quel pezzo di palazzo. La seconda parte l’ho comprata sei mesi dopo. Mi accompagnò a Lecce l’amica gallerista Nina Yashar, che dopo aver visto il palazzo mi disse: “Se non la compri tu, te la compro io!”. Eravamo inebriate dalla bellezza di quel luogo e dall’energia così femmina che si respirava all’interno.

CS: Hai definito Palazzo Luce come il tuo “testamento estetico”. Cosa significa davvero, per te, questa espressione?
AME: “Testamento estetico” perché se ripenso alla mia vita, è stata segnata fin dall’adolescenza da una passione profonda per il design e per l’estetica delle forme e dei colori.
È come se tutto ciò che mi circondava dovesse diventare una scenografia, dove tutto doveva essere perfetto. Mi fa sorridere ripensare ai miei genitori, che lavoravano sodo tutto il giorno e facevano mille sacrifici, mentre io la domenica non chiedevo i pasticcini alla panna ma una rivista di arredamento.
Ogni tanto li sentivo parlare tra loro, mentre ero chiusa in camera a ritagliare giornali: pensavano fossi un po’ strana!

CS: Come si è formata, e come si è trasformata, nel tempo, la tua passione per l’arte e il design? C’è stato un momento, un’opera, un incontro che ha segnato un passaggio?
AME: Direi l’incontro con Luisella Valtorta, fondatrice di Dilmos. È stata una guida, una maestra. Per due anni non ci siamo mai parlate, ma lei mi permetteva di stare in galleria e studiare. Tutti i libri di design sono passati dalle mie mani.
Poi sono riuscita a comprare il mio primo pezzo: il Carlton di Ettore Sottsass, pagato con tre anni di rate e ore di palestra dove insegnavo aerobica al Club Francesco Conti.

CS: Qual è stata la tua prima acquisizione significativa? E oggi, se dovessi scegliere un’opera che ti rappresenta profondamente, quale sarebbe?
AME: Con il Carlton di Sottsass ho capito che stavo aprendo una nuova strada nella mia vita. Quell’amore non sarebbe mai finito.
Anche il mio primo pezzo di Gio Ponti ha segnato un passaggio fondamentale: Ponti rimane l’uomo della mia vita!
Anche se devo ammettere di aver rovinato un po’ l’infanzia dei miei figli con frasi come: “Attento al mobile di Ponti!”, “Non ti dondolare sulla Superleggera di Ponti!”, “Non saltare sul letto di Ponti!”

CS: La tua collezione include artisti come Marina Abramović, William Kentridge, Alfredo Jaar, Joseph Kosuth e Formafantasma. Cosa guida le tue scelte? L’istinto, la forza concettuale, la relazione umana?
AME: Tutto nella mia vita nasce dall’aspetto umano: dalle opere, dagli artisti, da come entro in connessione con loro.
Non posso dire di aver fatto grandi affari, ma sono certa di avere grandi affetti intorno a me. Le mie opere sono i miei migliori amici.

CS: Quanto conta, per te, entrare in relazione diretta con gli artisti? Quanto il dialogo personale influisce sul tuo desiderio di collezionare?
AME: È fondamentale! Devo conoscere un artista, ascoltarlo e raccontarmi. Il dialogo è tutto. Gli artisti sono i miei migliori confidenti.

CS: Quali sono gli artisti emergenti, o le ricerche contemporanee, che oggi segui con maggiore interesse?
AME: In questo momento sono molto emozionata di conoscere e lavorare con Aldo Sergio. L’ho scoperto attraverso il gallerista Tommaso Calabro. A breve verrà a Palazzo Luce per un lavoro site-specific nella Sala Ponti, in dialogo con William Copley e con alcuni pezzi del Parco dei Principi di Ponti e Martino Gamper, e con le ceramiche di Zoe Williams.

CS: Hai collaborato con Giuliano Andrea dell’Uva, Martino Gamper, Antonio Marras, Lia Rumma. Sono figure diverse, autonome, ma tutte capaci di creare linguaggi forti. Come nascono queste collaborazioni?
AME: Tutte nascono da una grande passione che ci accomuna. Cito spesso una frase di Martino Gamper: “Il bello con cultura”. Ci unisce la ricerca continua, la voglia di crescere e di invadere i campi del design, dell’arte, dell’architettura e della storia. Tutto parte dalla conoscenza storica.

CS: Palazzo Luce vive in una dimensione ibrida: arte, design, memoria, ospitalità. Come mantieni l’equilibrio tra queste forze senza che una prevalga sull’altra?
AME: In realtà non sono io a decidere gli equilibri, è Palazzo Luce. È lei a scegliere la strada. Sembra assurdo, ma l’anima di Luce esiste eccome, ed è lei a muovere le fila del teatro e della scena.

CS: In che modo la luce di Lecce – così unica, così viva – ha influenzato il tuo modo di pensare la collezione e lo spazio?
AME: Lecce è magica e magnetica. Ci sono capitata per caso durante il mio primo brevissimo viaggio di nozze. Non ricordo nulla di quel viaggio, tranne il mio arrivo a Lecce. Sentivo così forte la sensazione che un giorno quella città avrebbe fatto parte della mia vita.
Tutta la mia collezione è dedicata a me e a Luce. In realtà, Luce è colei che mi ospita, e io mi sento la sua custode.

CS: Qual è la tua filosofia nel collezionare arte contemporanea? È una forma di ricerca? Un atto di fiducia? Un’espressione politica?
AME: Io vivo di ricerca. È una condizione inevitabile per me. L’arte è un’onda che mi travolge continuamente. È come una danza.

CS: Oltre all’arte, quali sono le tue altre passioni? E come si intrecciano nel tuo modo di vivere e costruire un progetto culturale come Palazzo Luce?
AME: Oltre all’arte mi occupo molto di benessere. Ho studiato danza per anni e quindici anni fa ho aperto una scuola di Pilates a Milano. Il benessere, per me, è cura del corpo e della mente, attraverso sport, meditazione e vita sana.

CS: C’è un luogo nel mondo – reale o immaginario – dove ti senti ispirata come a casa?
AME: Direi il Brasile. Ho passato diversi anni della mia infanzia e prima adolescenza a Rio de Janeiro. Ho ancora tante amiche che sento e vedo spesso. Mi porto dentro quel calore umano e quella luce speciale che trovavo passeggiando sulla waterfront, con la pavimentazione a mosaico dell’Avenida Atlantica realizzata da Roberto Burle Marx.

CS: Come immagini il futuro di Palazzo Luce? Hai in mente nuovi percorsi, aperture, collaborazioni, formati?
AME: Sogno che Palazzo Luce venga riconosciuto come casa museo, come già indicato dalla Regione. Mi auguro ci sia maggiore consapevolezza da parte delle istituzioni sul valore culturale e artistico che si sta sviluppando in Puglia, grazie a progetti come Palazzo Luce, Casa Flash Art, fino alla ex marmeria di Marisa Melpignano, che diventerà un importante spazio per progetti e residenze d’arte.

CS: Se dovessi descrivere Palazzo Luce in tre parole, quali sceglieresti? E se dovessi scegliere tre parole per te stessa, oggi?
AME: Palazzo Luce è: femmina, dolcemente malinconico, vulcanico.
Io? Mi rispecchio in Luce. Un po’ come quando adotti un cane e poi scopri che ti somiglia: Palazzo Luce, io e la mia adorata golden retriever Senna siamo tre gocce d’acqua!

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