In occasione della mostra personale di Stefano De Paolis “for the kingdom, if I can” presso Ondo, -project space dedicato alla ricerca di artisti emergenti con un’attenzione particolare al panorama italiano – Flash Art Italia propone il testo critico di Filippo Bosco che accompagna il percorso espositivo.
Il disegno attraverso lo specchio (e quel che Stefano vi trovò)
Pensando ai pittori come a “una specie in procinto di estinguersi” (e alludendo a Degas), Paul Valéry nel 1938 ipotizzava un’arte del futuro, da immaginarsi nel “laboratorio pittorico d’un uomo rigorosamente vestito di bianco, con guanti di gomma, che obbedisce a orario preciso, provveduto d’apparecchi e di strumenti rigorosamente specializzati, ciascuno col suo posto e con la sua precisa occasione d’impiego”. Vengono in mente certi quadri della nuova oggettività tedesca, oppure l’atelier di Piet Mondrian, o quello di un artista concettuale come Giulio Paolini. Per Valéry questa asettica e robotica pratica post-estinzione contraddiceva il carattere idiosincratico, l’ispirazione imprevedibile, rigorosa solo in quanto ossessiva, che è l’asse portante di Degas Danse Dessin. Contraddetto era soprattutto il disegno per come lo apprezzava il poeta francese, espressione della personalità, del movimento ottico e muscolare più che mentale, al contempo confessione e ispirazione (“Sinora, il caso non è stato eliminato dai gesti e il mistero dai procedimenti, l’ebbrezza dagli orari”).
Nel 2025 i pittori sono tutt’altro che estinti: ma cosa immaginare ancora più in là, in un futuro intergalattico? Un pilota di astronavi e mobile suit prende il tè con teiere e tazzine, gozzaniane nonostante le fogge futuristiche; legge un libro stampato su carta; si esibisce al microfono o risponde a un telefono, tutt’e due apparecchi non ancora cordless; si dondola su una sedia Thonet. Dal suo punto di vista sono reperti archeologici: forse il pilota diserta le imprese spaziali, resta a casa, si immalinconisce nei ricordi.
L’intreccio di temporalità è solo uno dei filtri allestiti da Stefano De Paolis nelle sue immagini disegnate. Un altro è lo specchio, attraverso il quale si osserva l’alter ego Pilota Intergalattico X nei suoi interni. In un disegno-orologio del 2024 il vetro del quadrante riflette una stanza intera, con tutti i suoi arredi (quasi per riordinarne gli anacronismi sulla linea delle ore). Molti di questi oggetti d’affezione esistono in tre dimensioni, dopo essere stati progettati in digitale e poi stampati come modellini in scala ridotta. De Paolis li colleziona e se ne circonda: l’affezione sostituisce la funzionalità di questo design colto ma arbitrario (teiere e tazzine citano Aldo Rossi, ma prodotte in ceramica si sbeccherebbero). C’è una curiosa corrispondenza tra l’affezione personale per queste chincaglie e la necessità di trasferirle e tradurle in immagine, disegnata o fotografica, per farne opere d’arte. Immersi nella luce lattiginosa delle riprese che li documentano come da una boîte-en-valise a Ondo Spazio, nei passaggi morbidi del fuori fuoco, essi – da reali che erano – tornano a galleggiare nell’immaginario dell’artista, la scala si confonde, il dettaglio è architettura, misure minime sono dilatate dalle lunghe ombre. L’ora del tè del Pilota non è quella assurda del Cappellaio Matto, la sua quiete ignora la fretta del Bianconiglio: eppure il mondo sembra esistere solo se capovolto nel riflesso spettrale dell’immagine.
Tra le sentenze, o apoftegmi, di Ingres che Degas amava ripetere a memoria, non poche trattano il disegno come uno schermo levigato da tracciare delicatamente. Il gesto sul foglio assume una scala microscopica, quella della punta della matita, o quella di un insetto. Per esempio: “Bisogna sentire il modellato come una mosca che corre sopra un foglio di carta”. Oppure: “La matita deve avere sulla carta la delicatezza d’una mosca che erra sopra un vetro”. Queste immagini quasi bataillane saranno piaciute a Valéry, che sembrò ricalcarle quando definì la condizione di chi osserva l’immagine fotografica come “quella di una mosca che non può attraversare un vetro”. Nella fotografia come nel disegno neoclassico, la superficie e la sua illusione è al contempo cristallina e opaca, eloquente e ostruente. La prima impressione che si ha davanti ai disegni di De Paolis è che una velina ne filtri la visione, spostando tutto il chiaroscuro su un registro di chiari. Un po’ come trascrivere un brano di pianoforte alle sole ottave più acute. I disegni hanno la qualità traslucida, o semitrasparente, della carta velina, che da un lato attribuisce loro un candore originale, una certa politura, dall’altro ne rende difficile la visione.
Trasparenza è un termine ambiguo: attribuisce immediatezza a elementi che in realtà si frappongono alla visione, la mediano, la ostacolano (vedi la frustrazione della mosca che non può varcare la soglia dell’immagine). Sarebbe forse meglio intendere la trasparenza come uno spettro di gradazioni di opacità. Utile in questo senso è il processo chimico con cui si fabbrica la carta velina, sostanzialmente legando e abbattendo la fibra della carta con l’obiettivo di rimuoverne quanta più aria possibile. Nel 1976 Achille Bonito Oliva propose una definizione “trasparente” del disegno: il medium più diretto e meno stratificato, che rende meglio leggibili il desiderio, le pulsioni e le idee dell’artista. La strategia di De Paolis appare lontana da questa lettura, ancora in fondo vasariana e umanistica, dell’immagine disegnata, richiede tempi lunghi di osservazione, ammette il gioco dei riflessi, non confonde la chiarezza con l’univocità. L’occhio si abitua lentamente alla sovraesposizione, fatica a ricomporre le forme, si arresta alle vaste campiture dove il tratteggio è invisibile (e fa a meno ormai delle linee che sagomavano più frequentemente le prime opere).
Siamo forse nello studio dell’artista post-estinzione. Non per i camici bianchi o i guanti di gomma (la bohème meneghina guarda piuttosto al rock ‘n roll), ma per il principio di esatto limite d’azione assegnato alla tecnica. Tutte le tecniche circoscrivono di fatto un campo di possibilità, più o meno ristretto; ma De Paolis riduce la sua tastiera per sfidare convenzioni e percezione dei suoi lavori. Modernità, già per Valéry negli anni trenta, significava anche una “crescente ripugnanza degli uomini per ogni lavoro d’andamento monotono e che debba compiersi con gesti poco diversi ripetuti a lungo. La macchina ha sterminato la pazienza”. La matita H non può ottenere toni scuri oltre un certo limite, mentre apre a una varietà raramente esplorata di chiari, che si approssimano al bianco della carta. L’immagine rimane affiorante sul foglio, non lo sfonda con uno spazio virtuale. Anzi lo solidifica, ribadendo i confini del supporto, non a caso spesso sagomati in forme d’arredamenti. Anche i disegni sono oggetti, come un curioso contraltare al fatto che De Paolis disegna solo immagini di figure in interni. Per la qualità del disegno e l’impossibilità di un colpo d’occhio da lontano, ogni foglio richiede di essere guardato da solo, e questa pratica sembra impedire, almeno finora, il lavoro per serie o l’allestimento in accrochages.
La prossimità alla superficie e la durata di questa pratica accomunano fine e inizio dell’immagine, la sua fruizione e la sua esecuzione. Alla fine, l’attenta regia guida lo sguardo di chi osserva attraverso ostacoli, piani uniformi o rapide convergenze, verso un marcato punctum (sovente lo sguardo del Pilota). All’inizio, la costruzione dell’immagine ha attraversato studi preliminari e schemi su carta da lucido per raggiungere la composizione definitiva, e poi ore e giorni passati a campire velature sul foglio. Il tratteggio, che è il modo d’elezione della grafite, viene infittito e ammorbidito fino a sparire nell’uniformità dei passaggi. De Paolis, disciplinandosi, vi riesce impugnando la matita obliquamente, perché la punta tocchi la superficie di taglio e sempre con la stessa angolatura. Una sensibilità incisoria (l’inclinazione del bulino determina la larghezza del solco inciso sulla lastra metallica), che spiega anche l’affinità con una tecnica desueta come la punta d’argento. Attenzione microscopica e avvicinamento lenticolare alla grana della carta: siamo così a un ultimo filtro, anche questo paradossale, quello dell’aderenza. Aderenti sono la tuta del Pilota e i suoi guanti, seconde pelli che cancellano gli accidenti e i dettagli, e ne restituiscono l’identità generica (X); e chissà chi potrebbe accorgersi che, prima di fotografarli, De Paolis ha dipinto i suoi modellini 3D con una mano di vernice bianca. Guaine come filtro sugli oggetti, che li mutano sottilmente nel momento in cui ne ribadiscono le forme. Non diversamente, nei disegni, la tastiera accorciata delle mine dure “aderisce” al foglio (ma una matita HB ha fatto capolino nell’ultimo disegno). L’immagine attiene alla superficie, tutti i riflessi tornano allo specchio.