Da quasi trent’anni, la Galleria Raffaella Cortese rappresenta uno dei centri vitali dell’arte contemporanea, in Italia e nel mondo. Con una visione coerente e profonda, ha saputo intrecciare pratiche radicali, ricerca concettuale, impegno femminista e sensibilità poetica. In questa conversazione, Raffaella Cortese racconta il senso del suo lavoro, il valore della cura, l’importanza del tempo e del silenzio, la relazione con gli spazi e gli artisti, ma anche le sfide di un sistema in trasformazione. Un racconto lucido e necessario, che è insieme visione, memoria e futuro.
Cristiano Seganfreddo: La galleria è un organismo vivo. La tua galleria è parte della storia dell’arte contemporanea italiana. Come è cominciato tutto? Che desiderio, che visione, che necessità c’era in te quando hai aperto il tuo spazio?
Raffaella Cortese: Tutto è iniziato da un desiderio di autonomia, di libertà ed espressione personale, che affiancava il mio senso di responsabilità culturale ed umana, insieme a una chiarezza progettuale. Quando ho aperto il mio spazio ero piena di questi desideri, insieme a una grande paura di non riuscire in questa avventura. Scriveva Conrad, “Nel lavoro c’è una grande possibilità di trovare sé stessi” e posso dire oggi che non ci sia cosa più vera.
Ho iniziato con un gruppo consistente di artisti americani. Nel 1995 la scena di New York era piena di diversità, con un’attenzione a movimenti post minimalisti e geometrici. Trovai un grande interesse per pratiche artistiche non convenzionali, performance, arte ambientale, video. Furono queste pratiche ad interessarmi in particolare, insieme alla fotografia. Mi sono proiettata dunque subito in un contesto internazionale, portando in galleria artisti newyorkesi che ho presentato per la prima volta in Italia.
In questi anni era molto vivo il dibattito italiano sulla fotografia come pratica artistica, in cui ho sempre creduto – ho lavorato con artisti che hanno utilizzato questo mezzo in modo molto concettuale, come Franco Vimercati, Roni Horn e Zoe Leonard. Jan Groover, artista che non viene ricordata come dovrebbe, l’ho mostrata nel 1995, proprio dopo Vimercati, pensando ai silenzi del loro lavoro.
La programmazione si è arricchita e chiarita nel tempo, attraverso tanti errori. La visione si è costruita passo dopo passo, spazio dopo spazio, con un’incessante volontà di fare bene il mio lavoro, nella cura dei dettagli.
CS: Lo spazio è il primo gesto. Hai scelto via Stradella, lontano dalle rotte scontate. Un gesto quasi curatoriale. Cosa rappresenta per te quel luogo? Come si vive una galleria diffusa in più vetrine, più tempi, più relazioni?
RC: Ho aperto il primo spazio in via Farneti, a pochi metri da dove siamo oggi, nell’appartamento dove studiavo. Ai tempi questa era l’unica possibilità per iniziare.
Al percorso di crescita della galleria corrisponde anche quello degli spazi: acquistai un appartamento al terzo piano nello stesso edificio ad un’asta pubblica, un passo avventuroso nel mondo burocratico del catasto.
Quando ci trasferimmo in via Stradella 7, ricordo la bellissima performance di Marcello Maloberti, “All’incirca della vita”, fatta durante i lavori di ristrutturazione, che elaborava uno dei suoi temi ricorrenti: la vertigine, l’instabilità. Una donna si teneva in equilibrio nell’atto di cadere, protetta da un nastro rosso in tensione.
Via Stradella è parte di un quartiere che mi appartiene e la cui vita quotidiana mi piace, come il martedì quando il mercato ne anima le strade e le persone ancora conversano. È un tipo di vita che mi ricorda l’infanzia.
L’evoluzione degli spazi negli anni è stata anche molto umana e piena di incontri.
Lo scorso autunno ho aggiunto uno appartamento più intimo al civico 15, uno spazio libero dedicato al mio tempo per pensare. I luoghi entrano nelle nostre vite, con le loro atmosfere, i colori, le volumetrie architettoniche.
Questa galleria diffusa si distribuisce su più vetrine, più edifici, più tempi e, proprio come dici, più relazioni. Ho sempre voluto che gli spazi della galleria fossero accoglienti e protesi verso l’esterno, che avessero la primaria funzione di incontro e accoglienza di collezionisti, giovani o semplici passanti. Qui le mostre si articolano come capitoli della stessa storia o antologie di autori diversi, quando a modellarli sono più artisti contemporaneamente.
CS: La tua è una galleria di visione. Hai sempre rappresentato artisti con posizioni radicali, concettuali, femministe, storiche e nuove. Da Roni Horn a Joan Jonas, Zoe Leonard. Come scegli gli artisti con cui lavorare? Cosa cerchi? Cosa rifiuti?
RC: Mi ritrovo nella definizione di una galleria di visione, che ha una narrazione e una storia i cui protagonisti sono gli artisti, i loro linguaggi e le loro tematiche.
L’ultima artista che abbiamo presentato è Gabrielle Goliath, la cui mostra curata da Ines Goldbach alla Kunsthaus Baselland mi diede un’emozione talmente intensa da convincermi a voler lavorare con lei a tutti i costi e immediatamente.
Gabrielle mi ha permesso di parlare della realtà della violenza al femminile in modo molto coincidente con la realtà sociale e soprattutto in contatto diretto con comunità di donne che ne sono toccate.
A questi temi siamo stati già affini tramite il lavoro di Ana Mendieta, ricordando le sue fotografie di grande impatto sui temi dello stupro, o con Monica Bonvicini e la sua elaborazione del tema del domestico. Con Gabrielle ho sentito il bisogno di aggiungere un tassello importante alla storia della galleria e delle donne con cui ho lavorato.
Gli incontri con gli artisti sono stati molto diversi, pieni di folgorazioni, studio visit e ascolto di quelli già a me vicini che mi hanno presentato autori speciali. Ricordo l’incontro con Kiki Smith grazie a Barbara Bloom, oppure l’arrivo di una cartolina meravigliosa, con un’immagine di un girasole scarnissimo e triste di Jitka Hanzlová, di cui mi innamorai. Ripenso al viaggio a Otwock, Polonia da Miroslaw Balka, o le visite attente e ripetute di Francesco Arena e Marcello Maloberti in galleria.
Cerco sempre artisti di spessore, pieni di desideri, che ci parlano del nostro tempo e di tematiche urgenti, costringendoci a confrontarci. Artisti che affrontano il tema della bellezza, che secondo me andrebbe riaffrontato, ridefinito, ricercato, perché presente nella natura e nelle nostre vite, che hanno una cultura antica, spesso dimenticata.
Sono affascinata dagli artisti in grado di interfacciarsi con una molteplicità di linguaggi e media complessi. Ho l’onore di lavorare con Joan Jonas, Simone Forti, Anna Maria Maiolino (tra gli altri), che hanno sublimato questo approccio comprensivo e hanno raccontato meravigliose storie di corpi, di idee, di movimenti, luci e ombre.
Rifiuto tutto ciò che non è necessario, tutto ciò che è facile, tutto ciò che è debole, tutto ciò che è modaiolo, tutto ciò che è effimero, tutto ciò che non ha a che vedere con il mio concetto di espressione. Dell’arte diffusa forse rifiuto certe contaminazioni eccessive.
Non smetto mai d’interrogarmi. Io amo l’arte, amo tutta l’arte e mi nutro di questo, insieme all’acqua e alla natura.
CS: Non solo opere, ma costellazioni. Il tuo programma sembra sempre proporre non tanto mostre, quanto conversazioni: tra linguaggi, storie e sensibilità. Che ruolo ha la parola nel tuo lavoro? Che ruolo ha il silenzio?
RC: La parola nel mio lavoro è il linguaggio degli artisti. Il silenzio è forse il momento più pieno, perché accoglie una quantità di suggerimenti, di voci, di ispirazioni.
La parola ha un ruolo fondamentale nel lavoro della galleria e nella mia vita. La poesia, con la sua sinteticità, astrazione, profondità è una costante accompagnatrice e un mezzo di scambio con gli artisti. Coltivo con loro moltissime passioni letterarie, che si ritrovano nel loro linguaggio e che costellano le nostre conversazioni.
CS: Il sistema dell’arte oggi sembra in affanno. Fiere iper-produttive, mercato polarizzato, attenzione volatile. Come vivi da dentro questo momento? Dove vedi il pericolo, dove la possibilità?
RC: Vedo un mercato in crisi e questo è purtroppo un dato di fatto le cui radici affondano in contesti molto più comprensivi della storia di oggi, tra guerre sui dazi e conflitti internazionali. Penso la democrazia sia indebolita, vedo forme di violenza che mi paralizzano, ogni giorno è difficile seguire le cronache dense di femminicidi, uccisioni e guerre disumane.
Mi sembra di essere stata in grado di dominare la velocità del mondo dell’arte, in passato, tenendo sempre al centro la galleria, e sento di farlo ancora oggi.
Ho voluto rivedere la nostra partecipazione alle fiere: abbiamo scelto delle occasioni estere puntuali e importanti per conoscere nuovi collezionisti, nuove possibilità. Partecipiamo ad Art Basel e Art Basel Parigi, che continuano ad avere grande potenziale e dinamismo.
Anche in questi contesti commerciali vogliamo evidenziare la nostra identità, senza andare incontro alle tendenze del gusto ma presentando un programma importante e coerente che invece lo guidi. Questo comporta fatica e dedizione.
Allo stesso modo, abbiamo disteso la programmazione delle mostre in galleria, che sono oggi più lunghe e su cui possiamo lavorare meglio.
Lo stato di fatto del mercato deve essere affrontato come una sfida e di sfide ne abbiamo cavalcate in 30 anni, avendo iniziato in un momento non ottimale negli anni ‘90. Mi sono allenata alla fatica e sono una grande lavoratrice, che si spende con molta generosità. È dalla galleria che oggi traggo sicuramente il maggior piacere.
CS: Essere donna, essere gallerista. Nel tuo percorso c’è una forte componente di militanza, anche non esplicitata. Che rapporto hai con il femminismo? E come ha attraversato la tua pratica quotidiana?
RC: L’uguaglianza di genere dovrebbe essere un obiettivo universale – non è solo una questione femminile bensì umana.
Essere femminista significa credere nelle proprie possibilità, ricercare sempre molto l’autonomia e meno il potere, nel senso maschile del termine. Io sento una sfida costante nei confronti dei miei limiti e cerco di fare sempre meglio il mio lavoro, stimolata dal confronto e dalla competizione. Quando questa innesca delle positività, stimola a ragionare, a combattere, a essere sempre più convinti delle proprie idee, nella grande accoglienza di quelle altrui.
Ci sono dei valori che hanno orientato la mia vita, che sono stati anche dei valori femministi, e credo ci sia ancora moltissimo lavoro da fare, la cronaca lo dimostra.
Molto spesso gli uomini non sono in grado di sviluppare una cultura emotiva e sentimentale o non ne sanno affinare i mezzi d’espressione.
Il senso del femminile si evolve velocemente, nella fluidità e spesso confusione di generi della generazione più giovane, che è interessantissima da seguire. “What if women ruled the world?”, chiede Yael Bartana – una prospettiva concreta che sarebbe urgente esplorare. L’equità e il rispetto reciproco sono fondamentali per una società sana.
CS: Milano è cambiata. La città è diventata capitale globale del design, della moda, della comunicazione. Ma lo è anche dell’arte? Che cosa rappresenta oggi Milano per te, per la tua galleria, per i tuoi artisti?
RC: I linguaggi del design, della moda, della comunicazione si sono molto mescolati con quello dell’arte: ricordiamo che i grandi mecenati di oggi appartengono proprio al mondo della moda. Milano è abitata da collezionisti del mondo del design e dell’architettura, un crogiolo di figure che si occupano di creatività, creando congiunture molto interessanti.
Spesso è proprio questo contesto privato a sostituire il pubblico nella funzione di supporto all’arte contemporanea. In questa voglio continuare ad avere fiducia, vivendo l’esperienza del Museo del Novecento, della programmazione del PAC e di altre sedi che la accolgono. Siamo tutti uniti nello sforzo di colmare delle lacune del pubblico, con collaborazioni e grandi sacrifici.
Milano rappresenta per me la casa, la città dove vivo e lavoro bene. Sono nata in una cittadina di provincia piccola e quella dimensione mi è sempre stata molto stretta. A Milano non ho mai trovato indifferenza, ma la possibilità di scegliere di stare in compagnia o invece di stare da sola, in una sorta di anonimato che mi spinge ai piaceri più grandi della solitudine.
CS: La passione è un atto politico. Cosa ti emoziona oggi, ancora, nel tuo lavoro? Cosa ti tiene accesa?
RC: Penso fortemente che la passione sia un atto politico. Ci sono due espressioni vivide che lo articolano al meglio: “la rivoluzione siamo noi”, di Beuys, e “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo” di Gandhi.
Oggi mi emoziona ancora tutto, perché il lavoro non è mai uguale a sé stesso – anche quando lo è, invento, e mi metto nella posizione di guardarlo da una prospettiva differente.
Quello che mi tiene accesa, specialmente negli ultimi anni, sono i rapporti con gli artisti, le letture e le conversazioni con i miei cari amici collezionisti.
CS: Una galleria non è solo un luogo di mercato.
È anche educazione, costruzione culturale, responsabilità. Come ti relazioni oggi al collezionismo, alla committenza, alla costruzione del valore?
RC: In galleria cerchiamo sempre, con i miei collaboratori, di formare nuovi collezionisti. Siamo entusiasti di averne alcuni, purtroppo ancora troppo pochi, con i quali stiamo facendo un percorso nel tempo, tutto da costruire. Non si diventa collezionisti dall’oggi al domani, ma attraverso l’esperienza, nella quale è bellissimo guidare persone appassionate.
Nella nostra evoluzione, durante il 2022/2023 abbiamo creato una piccola nicchia, uno spazio minuscolo ad Albisola Superiore, dove abbiamo ampliato il nostro programma invitando giovani artisti a collaborare, insieme alle loro gallerie di riferimento.
Questo è una fonte anche di continuo aggiornamento, di gioia nello stare con nuove generazioni di artisti e indagare le nuove direzioni dell’arte, che rimane il nostro mezzo e il nostro faro per la costruzione del valore.
Cerco continuamente nuove occasioni per apprendere: da nuove generazioni di artisti, collezionisti, galleristi, ritenendo e filtrando come una spugna.
CS: Il futuro non è solo davanti. Qual è il futuro possibile che immagini per te, per la galleria, per il sistema dell’arte? E quale invece non vuoi accada.
RC: Immagino un futuro complesso per i giovani, ma forse accade irrevocabilmente che le persone della mia generazione provino questa forma di preoccupazione.
Come il mio passato, immagino un futuro di responsabilità, anche qui con sfide e difficoltà.
Non credo se ne parli molto, oltre che nel mondo dell’arte ma in generale in quello degli imprenditori: penso ci sia una crisi del valore del lavoro, che nel nostro settore diventa ancora più importante perché abbiamo bisogno di persone molto appassionate e creative.
Dopo il Covid si è manifestato questo desiderio di pensare in primis alla propria vita privata, fino a un egoismo personale molto pericoloso che non tiene più conto del valore sociale del lavoro.
Anche se sono sempre protesa all’ascolto delle nuove generazioni, da cui si apprende sempre moltissimo, vedo fragilità e smarrimento, ricerca di una comodità e benessere che non sono sempre compatibili con l’impegno.
Continuando a pensare a dei punti critici, immagino un futuro fiscale equo, perché oggi è semplicemente impossibile essere competitivi in un mondo europeo e internazionale con un’IVA al 22%.
Il futuro della galleria? Il suo passato è stato un percorso graduale, fatto di singoli passi attenti guidati da molta energia, lungimiranza e senso economico. Il suo futuro sarà guidato dagli stessi istinti, una ricerca costante e voglia di evolversi, allontanandosi da tutto ciò che è banale e piatto e da un ingannevole dinamismo.
Muovendosi oggi tra rivoluzioni informatiche, intelligenza artificiale, violenza, è molto difficile pensare a un futuro solo positivo. Tuttavia, la resilienza abbraccia speranza, non intesa come cieco ottimismo o sciocca positività, ma ciò che Jonathan Lear chiama “radical hope”, ovvero un’irrinunciabile e profonda scelta di guardare al futuro come possibilità, pur consapevoli della crisi umana e culturale del presente.