“Clima” è più di un nome: è una dichiarazione d’intenti. Fondata nel 2015 a Milano da Francesco Lecci, e diretta insieme a Clarissa Grechi dal 2021, la galleria nasce da un’intuizione maturata dopo un’esperienza a New York, in un momento in cui il sistema milanese sembrava aver perso slancio. In un paesaggio in trasformazione — segnato da chiusure e rinascite — Clima ha scelto di costruire un ecosistema curatoriale capace di sostenere, accompagnare e far emergere una nuova generazione artistica. La sua storia è fatta di prime volte, di debutti assoluti e scommesse sul talento, in una continua tensione tra la coerenza e la libertà, tra il desiderio di costruire relazioni durature e la necessità di sperimentare.
Oggi Clima si muove tra Milano e l’estero, attraversando fiere come Liste, Frieze, Paris Internationale, proponendo solo show, dialoghi e collettive che interrogano i linguaggi del presente. Con uno spazio nuovo nel cuore di Porta Venezia, più ampio e ambizioso, Clima riafferma la propria vocazione: creare un “clima” reale, umano e intellettuale, attorno all’arte. In questa conversazione ripercorriamo l’origine e il percorso della galleria, le sue scelte critiche, il ruolo delle fiere, i rischi del sistema e le aspirazioni di lungo periodo.
Cristiano Seganfreddo: Clima è nata nel 2015 da una tua intuizione. Quale spazio critico o curatoriale mancava, secondo te, nella scena artistica milanese di quegli anni?
Francesco Lecci: Tornavo da un’esperienza a New York di un paio di anni, dove avevo fondato insieme a due colleghi lo spazio Roomservice a Williamsburg, e dopo la crisi del 2008/9, che però aveva toccato molto Milano soprattutto nel 2011/12, le galleria avevano subito molto, alcune avevano o stavano per chiudere. L’expo 2015 ha dato grande nuovo slancio ed entusiasmo alla città, e semplicemente mancavano gallerie nuove, che dessero voce alla nuova generazione artistica che era fortemente presente in città, dove c’erano già molti artist run space, ed una scena piuttosto viva.
CS: Il nome “Clima” evoca un’atmosfera, un ecosistema. Che tipo di clima volevi davvero costruire intorno agli artisti?
FL: L’idea del nome parte dalla voglia di intercettare la contemporaneità assoluta dei linguaggi del nostro presente, ed è sempre stata una spinta di Clima, ancora oggi.
Quasi tutti gli artisti che collaborano con noi hanno avuto la prima mostra in galleria in assoluto, o in Italia; naturalmente poi il rapporto con alcuni artisti si è consolidato e li rappresentiamo da molti anni, quindi anche il ruolo di Clima è ormai sia di crescita e sostegno, che di scouting, nazionale ed internazionale.
CS: La galleria ha avuto una prima sede in via Stradella, poi nel 2023 vi siete trasferiti in via Lazzaro Palazzi. Quanto ha contato questo cambiamento di spazio nella ridefinizione della vostra identità curatoriale e pubblica?
FL: Dopo molti anni in Stradella, via importante perché sede dei tre spazi di Raffaella Cortese (che è stata un mentore ed un sostegno per lunghi anni), gli spazi di un appartamento milanese, con la sua architettura articolata in tre stanze, aveva esaurito il potenziale, soprattutto nei confronti di artisti che vi si erano confrontati in molte occasioni.
Ci serviva quindi uno spazio più grande e diverso, quello di Lazzaro Palazzi è stato un amore a prima vista, fortemente cercato; è uno spazio con altezze importanti e dimensioni più ampie, che ci permette di realizzare progetti su più ampia scala, sia in dimensioni che, a volte, in ambizione.
Via Palazzi è poi nel cuore della Porta Venezia centro nodale di culture ed identità, e quindi fonte di stimolo per noi costante.
CS: In questi anni avete rappresentato una generazione emergente e globale di artisti — da Vijay Masharani a Dana Lok, da Marie Matusz a Matteo Nasini. Come scegliete gli artisti? Che cosa li lega, sotto traccia?
FL: La ricerca e la curiosità sono sempre stati un motore della galleria, ci interessano artisti che si esprimono in ogni tipo di linguaggio, anche con background diversi, come chi si è formato nel mondo della musica come Matteo Nasini, o Sacha Kanah, che ha anche studiato architettura, o Vijay Masharani, con una pratica principalmente video. Ricerchiamo il talento ma anche una certa unicità nel linguaggio.
CS: La mostra collettiva “Tante care cose”, con cui avete inaugurato la nuova sede, è sembrata un punto di svolta. Un archivio affettivo e uno statement. Come l’avete pensata?
FL: La mostra inaugurava lo spazio nuovo, abbiamo quindi sentito il bisogno di mostrare il lavoro di tutti i nostri artisti, come se ipoteticamente lo spazio nuovo desse la possibilità di una nuovo debutto ai nostri artisti, sia per il pubblico che già ci seguiva, ma anche per uno da costruire.
Le opere erano sia nuove, per chi poteva o sentiva di poter partecipare in tal senso, o lavori anche importanti d’archivio, che non sono mai stati presentati in galleria.
CS: Avete partecipato a fiere come Artissima, Paris Internationale, Frieze London, e recentemente Liste a Basilea. Che cosa rappresentano per voi queste occasioni? Sono più visibilità o più test?
FL: Le fiere, da sempre importanti sia per un pubblico nazionale, ma soprattutto per quello internazionale, sono sicuramente dei momenti di visibilità e di vendita, ma in alcuni casi sono anche un modo per presentare un certo approccio alla ricerca che caratterizza Clima.
Abbiamo sempre presentato solo show o al massimo dialoghi tra due artisti, quasi sempre con lavori nuovi e specificamente pensati per quegli spazi, che diventano inevitabilmente anche dei test per valutare l’attenzione del pubblico sui nostri progetti.
CS: Con “Burning Treasure” di Matteo Nasini avete affrontato anche il tema del cambiamento climatico. Quanto contano i contenuti, i temi forti, nel vostro lavoro curatoriale?
FL: Direi che non c’è mai stato un focus necessariamente militante della galleria, dalla sua fondazione, ma sempre nel tema della contemporaneità credo che sia inevitabile, anzi a volte necessario, che gli artisti si confrontino che le grandi tematiche o gli eventi sconvolgenti dei nostri tempi. Bisogna però sempre fare attenzione a non cadere nella trappola della leziosità, o del reportage, fatto già benissimo dai giornalisti o comunque da altre figure rispetto all’artista, che deve toccare altre corde, a livello più intimo e profondo, e riuscire ad attivare degli ingranaggi interiori, magari sopiti o sconosciuti, di ognuno di noi.
CS: Clima si muove tra il linguaggio delle mostre personali e quello delle collettive, tra Milano e l’estero. Come tenete insieme la coerenza e la libertà progettuale?
FL: Ai nostri artisti è sempre stata data libertà totale nei progetti, che a volte non vanno nella immediata direzione della commerciabilità.
Per i group show, a volte organizzati da curatori che stimiamo, o più spesso da noi in prima persona, facciamo molta ricerca e ci piace mettere insieme artisti che ci affascinano, spesso proprio in quel determinato periodo, per andare a costruire un puzzle dei linguaggi del presente.
CS: In una città come Milano, densa di gallerie storiche e nuove, cosa significa costruire una posizione riconoscibile? Esiste un’identità Clima?
FL: Credo, come detto in precedenza, che la nostra ricerca sia legata alla costante ricerca di linguaggi del contemporaneo, quindi direi che la ricerca, anche e soprattutto sui giovani, e la totale libertà lasciata agli artisti, anche in progetti ambiziosi, siano stati la cifra che ha contraddistinto finora la nostra attività
CS: Come si costruisce, per te, un rapporto solido e sincero con un artista? E cosa significa oggi “rappresentare” qualcuno?
FL: Quasi tutti gli artisti che rappresentiamo hanno avuto, come detto in precedenza, la prima mostra personale in galleria in assoluto, o in Europa, da noi, quindi li abbiamo seguiti dagli esordi, e questo significa scommettere sul lavoro e la visione di un artista anche quando non si è ancora affermato.
Credo che questo supporto, la possibilità di realizzare i progetti che vogliono, sostenendoli in produzioni spesso non immediatamente recuperabili, se non a volte irrecuperabili, ed un rapporto di fiducia reciproca, abbiano cementificato dei rapporti nel tempo.
Credo poi che, per ogni artista, ci sia stato nel tempo un sostegno anche ai progetti dei loro colleghi da noi rappresentati, quindi indirettamente un supporto allo sviluppo di Clima in senso più ampio.
CS: Qual è stato il momento più difficile in questi anni? C’è stato un momento in cui hai pensato di mollare?
FL: Purtroppo è sempre difficile, per due motivi principali: le scelte in ottica più o meno commerciali, e i fattori che decidono domanda e offerta nel mondo dell’arte, spesso difficilmente prevedibili. Sicuramente la minore attenzione alle mostre, alla presenza fisica rispetto a quella online, è stata a volte frustante, come anche i costi sempre più alti nel sostegno alla “macchina” galleria, fiere e presenza internazionale in primis.
CS: Il sistema dell’arte contemporanea è sempre più competitivo e polarizzato. Che ruolo possono avere gallerie come Clima nel proporre nuovi paradigmi?
FL: Speriamo quello di avvicinare un pubblico più giovane, e lavorare in funzione dell’idea di poter vivere con delle opere, conoscere il percorso degli artista da vicino, e quindi supportarlo anche come una forma di autoanalisi costante, come un compagnia per la vita, non solo come mero possesso di un bene di consumo.
CS: In che modo l’arrivo di altre gallerie nella stessa area (come UNA) cambia l’ecosistema di riferimento? È concorrenza o comunità?
FL: Sicuramente comunità, più realtà ci sono, più pubblico può arrivare e più si parla e si vive l’arte, meglio è per tutti.
CS: Se Clima fosse una temperatura, quale sarebbe? E un colore?
FL: Forse un colore freddo, e poi Clarissa preferisce il freddo in generale al caldo.
CS: Che cosa vorresti che restasse, tra dieci o vent’anni, del lavoro che stai facendo oggi?
FL: La passione, e il racconto dei nostri anni.





