Per una genealogia affettiva del Camp Nostrano di

di 31 Luglio 2025

Parlando con mia nonna, anni fa, ho ritrovato una sua foto alla mia età, in abito tradizionale. Volant, merletti, dettagli sartoriali.. Tutto di quello scatto mi ha ammaliato. L’inquadratura che lascia la campagna incolta e un sentiero di terra in primo piano. L’intravedersi di due giovani donne, in costume, mano nella mano. A metà tra un momento di spontaneità rubato e una posa senza tempo. Quel rituale in via di sparizione, che loro stesse mettevano in scena per un’amica venuta dalla città, cristallizza il passare del tempo; il passaggio dall’Italia delle lucciole, facendo eco a Pasolini, all’Italia nostrana. E quell’abito a me sconosciuto, ma diffuso in varie aree del Mezzogiorno: la ‘pacchiana’.
Da ‘pacchia’: ‘tempo libero’ ‘stare bene’, la ‘pacchiana’ era l’abito dei giorni di festa, colorato e riccamente decorato, in radicale contrasto con le logiche produttiviste del lavoro e della modestia cattolica. Lo slittamento semantico attuale, come sinonimo di volgarità, kitsch o eccesso, rivela un pregiudizio che incrocia misoginia, classismo e sentimenti antimeridionali. Si dice addirittura che Mussolini, visitando Catanzaro, scelse la sua ‘pacchiana’ preferita.
Da quelle conversazioni, rivendicare le politiche di genere, del gusto, della moda insite in questo termine è diventata un’ossessione. Artefatti materiali, ma anche sentimentali, queste vesti incarnano saperi locali e patrimonio immateriale, riflettendo legami profondi di appartenenza e diaspora Meridionale, e allo stesso tempo preservano tecniche decorative storicamente trascurate dai canoni dell’arte dominante. L’abito, spesso tramandato da madre in figlia, è diventato un archivio affettivo, una genealogia alternativa.
L’urgenza di risignificare e attualizzare le estetiche marginalizzate del Sud Italia mi ha portato a riflettere sulla categoria del ‘pacchiano’ come Camp Nostrano, rintracciando le sue tensioni nell’opera di artiste locali ed internazionali. Dai Bunad Norvegesi-Sudanesi di Ahmed Umar allo sperimentalismo del brand Chopova Lowena, fino all’esuberanza ornamentale kawaii, stiamo assistendo ad un’eruzione continua di estetiche massimaliste nell’arte contemporanea, nella cultura popolare e nella moda.
In che modo codici estetici spesso marginalizzati come ‘kitsch’, ‘di cattivo gusto’ o ‘volgari’ possono sovvertire canoni di rappresentazione dominanti? Quali nuove forme di visibilità e resistenza intersezionale emergono dalla ricontestualizzazione del “pacchiano” come forma di Camp meridionale?

Parlare di Camp Nostrano significa interrogarsi su una sensibilità estetica che, pur condividendo con il Camp teorizzato da Susan Sontag1 nel 1964 – l’amore per l’artificio, l’eccesso e il melodramma, assume una connotazione radicalmente situata nel contemporaneo. Se il Camp nasce come strategia di sopravvivenza transfemminista, come estetica dell’eccesso marginale; nel contesto italiano e diasporico contemporaneo si carica di tensioni storico-sociali legate alla classe, alla provenienza geografica e alla performatività del femminile. Il Camp Nostrano è ciò che emerge quando la pacchianeria, la decorazione ostentata, la teatralità del gesto o dell’abito non sono solo un’estetica, ma una contronarrazione: dell’Italia ‘minore’, del Sud globale, del popolare, del sentimentale.
In questo senso, il ‘pacchiano’ diventa una categoria estetico-politica da risignificare, un luogo affettivo in cui si intrecciano memorie familiari, fantasie trash, nazional-popolare2 postberlusconiano e codici visivi stigmatizzati. È uno spazio di resistenza contro l’omogeneizzazione del gusto borghese e del minimalismo normativo, dove la decorazione non è orpello ma linguaggio, autoaffermazione.
L’opera di Chalisée Naamani, intessendo storie di femminilità, canoni estetici e moda Camp, risuona profondamente con queste riflessioni, in particolare la personale “Quando Va Male il Leopardo” (Ciaccia Levi, Milano 2023) e il billboard My Mother Was My First Country (Pinacoteca Agnelli, 2024). Giocando con la diceria della moda, sull’eterno ritorno del leopardato ogni qual volta un brand affronta un periodo di crisi; Chalisée si interroga sul valore storico e coloniale di tale simbolo, tracciando la genealogia del maculato da emblema di potere a feticcio orientalista3.
Autoritratti, installazioni e sculture, spesso realizzate con materiali di recupero e stampe su stoffa, esplorano il leopardato come cliché, stigma e icona. Da totem magico a fantasia riprodotta in serie, da Dior al punk alle cagole marsigliesi4, al limite tra glamour e trash, da supremazia machista a femminilità marginalizzata. Le sue vetement-images, neologismo inventato dall’artista per descrivere installazioni scultoree che combinano collage digitali, tessuti e memorie intergenerazionali, evocano l’estetica baroccheggiante e l’overstimulation dei social media, esplorando il corpo come costruzione culturale ed identitaria.
A metà tra ritratto rinascimentale e miniatura iraniana, gli abiti e la politica degli affetti sono protagonisti anche del billboard My Mother Was My First Country. In antitesi con la propaganda pubblicitaria, il cartellone di Naamani è un ritratto intimista, una Instagram story, un’istantanea della sua domesticità. Il gesto introspettivo, volto a riappropriarsi dello spazio pubblico e affermare una condizione tanto esistenziale quanto politica, si inserisce in un ampio movimento che attraversa l’attivismo e la storia dell’arte. Mi viene in mente Untitled (1989) il billboard del letto disfatto di Félix González-Torres che negli anni Novanta usa l’assenza del proprio amante per denunciare la mercificazione delle relazioni e silenzio colpevole di fronte allo sterminio durante l’epidemia di AIDS o ‘AFTER COURBET’ di Tanja Ostojic che riscrive l’Origine du Monde con la bandiera dell’Unione Europea per accusare l’iniquità delle sue politiche. Giocando con il topos figurativo della rappresentazione della madre e figlio, in My Mother Was My First Country l’artista si presenta, davanti a una cabina elettorale, indossando un cappellino che recita “Make Europe Antifascist Again” parodia del notorio MAGA Trumpiano, accanto al figlio piccolo che gioca tra emoji giocattolo e souvenirs. Ancora una volta l’abito diventa superficie affettiva su cui inscrivere narrazioni diasporiche e fabulazioni intimiste. Le influenze della sua doppia cittadinanza si rintracciano nel sincretismo delle decorazioni e nello sdoppiamento dei ricordi, dei souvenirs, da un lato una copia della Gioconda incorniciata in oro, dall’altro una sua riproduzione in un sacco da pugilato, che ricorda lo sport del zurkhaneh iraniano. L’ornamento da significante si fa significato per rivendicare un senso di appartenenza avulso da nazionalismi occidentali, ma che emerge da una costellazione di affetti.

Proseguendo in questa genealogia affettiva del Camp Nostrano, il lavoro di Betty Bee rappresenta una pietra miliare. Artista autodidatta e figura liminale dell’underground dell’arte Partenopea anni Novanta, Betty Bee costruisce un immaginario in cui il corpo, l’eccesso e l’emotività non sono mai semplicemente autobiografici, ma sempre scenografici, relazionali, dissidenti. Già dal titolo, la mostra “Nacquero a Napoli Improvvisandosi: Modelle – Cameriere Manicuriste – Arciere – Motocicliste – Scassacazzo – Pazze – Artiste Compagne e Scompagne” (Zazà, Milano, 2024) è una celebrazione del margine e della molteplicità. Le artiste Betty Bee e SAGG Napoli, messe in dialogo da Milovan Farronato, rivendicano l’esagerazione, la volgarità e l’autoironia per sovvertire le strutture di potere e i controlli disciplinari storicamente imposti ai corpi femme e non binari, facendo eco alla resistenza contro l’isteria femminile, il tarantismo e l’omobitransfobia dilagante.
Un accumulo di visioni e impressioni sensoriali, che si stratificano in una sovrapposizione di tradizioni, gossips e contronarrazioni in costante divenire. Tutto è dichiaratamente pacchiano; dalle finte lapidi all’ingresso alle immagini da calendario e le rose col filo spinato che fuoriescono dal quadro. Se da un lato Betty Bee nelle vesti di strega, in una performance voyeuristica, denuncia la violenza patriarcale; SAGG Napoli rivendica il diritto alla molteplicità, a essere soggetto e oggetto; iscrivendo il suo corpo negli scorci da cartolina della città per distruggere la fissità di quei paesaggi da nuovo Grand Tour e Overtourism restituendone una geografia situata. Le opere in mostra – ritratti iperfemminili, video-performance, installazioni – si muovono tra souvenir e calendario, cultura ‘alta’ e cultura ‘bassa’, tra cliché e affermazione, ribaltando lo stigma della “donna napoletana appariscente” e offrendone una versione espansa, sentimentale, vernacolare. La fantasia animalier, il ricamo, il fiore glitterato, la smorfia irrompono come pratiche di autorappresentazione che mettono in discussione gerarchie consolidate di genere, classe e subordinarietà culturale.
Il Camp Nostrano che emerge da queste pratiche non è né ironia né parodia fine a se stessa, ma una forma di disidentificazione, per dirla con José Esteban Muñoz. In Disidentifications5, Muñoz descrive come i soggetti subalterni agiscano all’interno delle strutture egemoniche senza assimilarsi del tutto né semplicemente rifiutandole, ma disidentificandosi: “ricodificando” segni, ruoli e linguaggi per produrre un senso altro, marginale, resistente. In questo contesto, l’auto-esotizzazione, l’autofiction e il folklore vengono usate per contrastare l’oppressione tardocapitalista.
​In qualche modo cercare di formulare un Camp Nostrano, nell’indefinitezza del “nostro” e di un “Sud” sempre relazionale, è un tentativo di sfuggire all’alienazione ogni volta che torno in Calabria dal Nord, agli spettri delle politiche di genere berlusconiane proiettati sul mio corpo, al classismo della Storia dell’arte che ho interiorizzato; e concepire la cultura, la bellezza come espressioni di ideali emancipatori a partire dalla propria vita.
In questo contesto, parafrasando Mark Fisher, parlare di sentimenti diventa un atto politico perché facilita un processo di consapevolezza, uno specchiarsi nell’altro, rendendo visibili le strutture interpersonali che l’ideologia capitalista tende a normalizzare. La presunta neutralità con cui ci insegnano a guardare il mondo non prescinde mai da una prospettiva coloniale, patriarcale, abilista e razzista. E’ forse proprio nel posizionamento che risiede il potere trasformativo del Camp Nostrano: nel tessere insieme percorsi di decostruzione personali e collettivi, storie di diaspora Meridionale ed incontri transnazionali, per rivedersi nella resistenza altrui. Nel prendere coscienza di quanto le prerogative del colonialismo italiano, nonostante l’amnesia collettiva, trovino origine nell’estrattivismo e nella subordinarietà del Mezzogiorno6, di come questi fenomeni siano ancora in atto, e spogliarci dallo sguardo eteronormativo con cui siamo cresciute, quel costante contenimento e assoggettamento della femminilità e del sentimentalismo. Riappropriarsi dei clichès per attraversarli e farli implodere dall’interno.
Lontano da una nostalgia reazionaria, il pacchiano è una domanda aperta; un’ode alla complessità, un sentire collettivo. Nella sensualità, nell’eccesso, nella caricatura risuona una rivendicazione politica che, prima di tutto, pretende di essere viste alle proprie condizioni. Dal Sud Italia al Sud Globale, si tratta di un processo molteplice e in divenire, un percorso di scoperta di sé, di riappropriazione della propria storia, della propria sessualità e performance di genere come habitus sociale7. Così anche Betty Bee, SAGG Napoli, Chalisée Naamani e la figura della ‘pacchiana’ reinventano gli stereotipi che le vorrebbero ridicole, eccessive, fuori luogo, per renderli strumenti di espressione affettiva e radicale. Le decorazioni fantasmagoriche, il trucco marcato, l’abito leopardato, diventano strumenti di disidentificazione: né assimilate né escluse dal canone dominante, ma in costante riscrittura. Questo gioco continuo di costruzione e decostruzione del sé rivela la natura culturalmente mediata della nostra identità, aprendo a nuove immaginazioni di come vivere la propria vita. Una celebrazione dell’ornamento, del kitsch, della pacchianeria come linguaggio d’amore e di disobbedienza. Una prefigurazione di mondi altri.

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Alice Minervini