Un ferro di cavallo tra l’impeto e la resa. MAST / Bologna di

di 26 Settembre 2025

È di una casualità virtuosa il fatto di aver visitato la mostra di Mohamed Bourouissa “Communautés. Projets 2005-2025”, al MAST di Bologna, esattamente il 23 settembre, il giorno successivo a una delle più grandi manifestazioni per la Palestina degli ultimi tempi. Pur non essendoci un diretto collegamento con la recente protesta, le tematiche della mostra toccano in termini generali tutti i nervi sempre scoperti della nostra società: marginalizzazione, esclusione, controllo, colpevolizzazione, coercizione, punizione e repressione. Tutto questo attraversa e si canalizza nel grido vivido delle opere di Bourouissa, con la forza impetuosa di un riot nelle strade. La retrospettiva che la Fondazione ha dedicato all’artista franco-algerino è la più ampia mai realizzata in Italia e ricostruisce vent’anni di pratica artistica tra fotografie, video, installazioni e lavori inediti. La mostra, curata da Francesco Zanot, si articola in quattro nuclei: Périphérique (2005-2008), Horse Day (2013-2019), Shoplifters (2014) e Hands (2025).
Périphérique è la serie che lo ha imposto sulla scena internazionale. Realizzate poco dopo le rivolte delle banlieue parigine, le fotografie evocano codici pittorici quasi classicheggianti, mettendo in scena scontri, inseguimenti, attimi sospesi di violenza imminente. L’artista non assume il ruolo del fotoreporter ma del regista: amici, conoscenti e attori non professionisti diventano protagonisti di questa serie, a metà tra neorealismo e artificio della posa. Le immagini, nella loro quasi-solennità – come quella del ragazzo con la tuta da scheletro dentro un cerchio di fuoco – restituiscono dignità e visibilità a corpi altrimenti invisibili, mostrando la banlieue non come luogo di esclusione ma come teatro politico e soprattutto simbolico. Périphérique è un progetto aperto e in continuo aggiornamento che, nella sua artificialità talvolta spettacolare, mette in scena la rivolta nei suoi caratteri più essenziali. Così si confonde nel continuum di un presente saturo di immagini digitali, reportage collettivo di moltitudini brulicanti che non si arrestano davanti alle ingiustizie che si compiono costantemente. Périphérique è ieri, oggi e domani, per nostra fortuna – seppur dannata, sgraziata e disgraziata.
Questa dimensione neorealista e finzionale come pratica simbolica, critica e di risignificazione accompagna anche la serie Horse Day (2013-2019), in cui Bourouissa documenta le scuderie sociali fondate da afroamericani, decostruendo l’immaginario hollywoodiano del cowboy bianco. Fotografie, sculture fotografiche e soprattutto un video – perno centrale di questo assemblaggio di opere – in cui si dà vita a una competizione-performance equestre che ricrea quel gioco tra finzione e realtà, tra documentario che rivela e atto messo in scena. In Shoplifters (2014), Bourouissa lavora invece a partire da fotografie scattate da un manager ed esposte nel suo supermercato di Brooklyn: ritratti accusatori di piccoli furti colti sul fatto, i cui protagonisti vengono colpevolizzati e messi in posa con l’oggetto rubato. Biscotti, detersivi, uova, bottiglie di birra: trofei miseri di sopravvivenza che nella risignificazione data dall’artista assolvono la disperazione e mostrano invece la crudeltà di un sistema che sorveglia, affama e punisce.
Il percorso espositivo si chiude con il progetto inedito Hands (2025). Mani e gesti estratti da immagini precedenti, ristampati su plexiglas e sovrapposti a griglie metalliche: la fotografia contemporanea che si fa scultura crea qui un vero e proprio dispositivo che evoca il carcere, la barriera, il confine, la chiusura del movimento e delle possibilità. Per la creazione di questa serie, Bourouissa si è ispirato a un passo di Antonin Artaud: «La grille est un moment terrible pour la sensibilité, la matière» (La griglia è un momento terribile per la sensibilità e la materia). Le mani, come fantasmi di tutte le persone escluse, marginalizzate e oppresse, si accalcano tra le sbarre metalliche e le stratificazioni di colori; non sembrano farsi strada, sono ferme nel tempo, perse nei loro vecchi movimenti in una teca di prigionia espositiva che non lascia scampo.
Chiudendo il cerchio, sembra emergere un passaggio tragico da Périphérique a Hands: una sorta di maturazione rassegnata che abbandona la messa in scena spettacolare in favore della tragedia e dell’inevitabile fallimento della rivolta contro il potere. Tuttavia, il continuo rimaneggiamento e aggiornamento delle serie fotografiche si fa pratica di speranza e ripensamento: scattare vuol dire riaprire il cerchio di fuoco, creare un varco per quel ragazzino che si credeva ormai finito, per scoprire che quelle fiamme erano immaginarie e che il bambino interiore deve sempre sopravvivere, anche quando si traveste da morto.

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Christian Nirvana Damato