La galleria Amanita inaugura il suo programma romano con una mostra personale di Daniele Milvio, “Questa sera si recita a soggetto”, che presenta un nuovo ciclo di opere realizzate durante la sua residenza presso la Fondazione Iris a Bassano in Teverina.
La sede si trova nel Palazzo Pupazzi (Palazzo dei Pupazzi), noto anche come Palazzo Crivelli e situato nel centro storico di Roma, fu costruito nel 1538 dall’orafo milanese Gian Pietro Crivelli. La sua facciata è riccamente decorata con figure in stucco, tra cui putti, maschere grottesche e scene mitologiche, che hanno valso all’edificio il suo soprannome.
Milvio ha costantemente esplorato e ampliato i confini della pittura e della scultura figurativa, attingendo a riferimenti storici per aprire nuove possibilità verso il futuro. Cresciuto immerso nella bellezza della musica classica e formato al violino, ha sviluppato fin da giovane una sensibilità per l’armonia e le sue sfumature, prima di dedicarsi pienamente alla pittura.
La sua ricerca canalizza un sarcasmo verso la società contemporanea, creando un immaginario eclettico e contraddittorio in cui le tecniche compositive classiche si fondono con un commento ironico. Fiabe, miti e motivi archetipici vengono semplificati per parlare direttamente allo spettatore, invitandolo a riflettere sulle assurdità e le ironie della vita moderna.
Il testo cha accompagna il percorso espositivo è un estratto dell’opera di Luigi Pirandello “Questa sera si recita a soggetto” (Milano – Roma: A. Mondadori editore).
IL DOTTOR HINKFUSS: […] Per levare a quello ch’io dico ogni aria di paradosso, v’invito a considerare che un’opera d’arte fissata per sempre in una forma immutabile che rappresenta la liberazione del poeta dal suo travaglio creativo: la perfetta quiete raggiunta dopo tutte le agitazioni di questo travaglio. Bene.
Vi pare, signori, che possa più essere vita dove non si muove più nulla? dove tutto riposa in una perfetta quiete?
La vita deve obbedire a due necessità che, per essere opposte tra loro, non le consentono né di consistere durevolmente né di muoversi sempre. Se la vita si movesse sempre, non consisterebbe mai: se consistesse per sempre, non si moverebbe più. E la vita bisogna che consista e si muova.
Il poeta s’illude quando crede d’aver trovato la liberazione e raggiunto la quiete fissando per sempre in una forma immutabile la sua opera d’arte. Ha soltanto finito di vivere questa sua opera. La liberazione e la quiete non si hanno se non a costo di finire di vivere.
E quanti le han trovate e raggiunte sono in questa miserevole illusione, che credono d’essere ancora vivi, e invece son così morti che non avvertono più nemmeno il puzzo del loro cadavere.
Se un’opera d’arte sopravvive solo perché noi possiamo ancora rimuoverla dalla fissità della sua forma; sciogliere questa sua forma dentro di noi in movimento vitale; e la vita glie la diamo allora noi; di tempo in tempo diversa, e varia dall’uno all’altro di noi; tante vite, e non una; come si può desumere dalle continue discussioni che se ne fanno e che nascono dal non voler credere appunto questo: che siamo noi a dar questa vita; sicché quella che do io non affatto possibile che sia uguale a quella di un altro. Vi prego di scusarmi, signori, del lungo giro che ho dovuto fare per venire a questo, che il punto a cui volevo arrivare.
Qualcuno potrebbe domandarmi: Ma chi ha detto a lei che l’arte debba esser vita?
La vita deve si obbedire alle due necessità opposte che lei dice, e perciò non arte; come l’arte non vita proprio perché riesce a liberarsi da codeste opposte necessità e consiste per sempre nell’immutabilità della sua forma. E ben per questo l’arte è il regno della compiuta creazione, laddove la vita, come dev’essere, in una infinitamente varia e continuamente mutevole formazione. Ciascuno di noi cerca di crear sé stesso e la propria vita con quelle stesse facoltà dello spirito con le quali il poeta la sua opera d’arte. E difatti, chi più n’é dotato e meglio sa adoperarle, riesce a raggiungere un più alto stato e a farlo consistere più durevolmente. Ma non sarà mai una vera creazione, prima di tutto perché destinata a deperire e finire con noi nel tempo; poi perché, tendendo a un fine da raggiungere, non sarà mai libera; e infine perché, esposta a tutti i casi impreveduti, imprevedibili, a tutti gli ostacoli che gli altri le oppongono, rischia continuamente d’esser contrariata, deviata, deformata. L’arte vendica in un certo senso la vita perché, la sua, in tanto vera creazione, in quanto liberata dal tempo, dai casi e dagli ostacoli, senza altro fine che in sé stessa.
Sì, signori, io rispondo, proprio così. E tante volte, vi dico anzi, m’è avvenuto di pensare con angoscioso sbigottimento all’eternità di un’opera d’arte come a un’irraggiungibile divina solitudine, da cui anche il poeta stesso, subito dopo averla creata, resti escluso: egli, mortale, da quella immortalità. Tremenda, nell’immortalità del suo atteggiamento, una statua.
Tremenda, questa eterna solitudine delle forme immutabili, fuori del tempo.
Ogni scultore (io non so, ma suppongo) dopo aver creato una statua, se veramente crede d’averle dato vita per sempre, deve desiderare ch’essa, come una cosa viva, debba potersi sciogliere del suo atteggiamento, e muoversi, e parlare.
Finirebbe d’essere statua; diventerebbe persona viva. Ma a questo patto soltanto, signori, può tradursi in vita e tornare a muoversi ciò che l’arte fissò nell’immutabilità d’una forma; a patto che questa forma riabbia movimento da noi, una vita varia e diversa e momentanea: quella che ciascuno di noi sarà capace di darle.
Oggi si lasciano volentieri in quella loro divina solitudine fuori del tempo le opere d’arte. Gli spettatori, dopo una giornata di cure gravose e affannose faccende, angustie e travagli d’ogni genere, la sera, a teatro, vogliono divertirsi.





