“Hand/Eye” Lateral / Roma di

di 16 Ottobre 2025

Che succede quando il linguaggio si incrina?

La domanda, che riprende un intervento testuale della curatrice Ginevra Ludovici, apre uno spazio di riflessione che non è soltanto teorico, ma profondamente concreto. Il linguaggio infatti, quando si frattura non perde soltanto la sua funzione di mediazione, ma lascia emergere la fragilità dei processi che regolano la nostra capacità di dare senso al mondo, di inscrivere esperienze individuali e collettive in forme condivise. Ed è in questa fessura che si colloca la bipersonale di Aia Sofia Coverley Turan e Benjamin Savi.

Il titolo “Hand/Eye” richiama la coordinazione occhio-mano e ci posiziona in quella soglia dello sviluppo in cui la percezione diventa gesto e il gesto diventa comprensione. Guardare, tracciare, scrivere: un ciclo che accompagna il bambino nella sua conoscenza e interpretazione del mondo e che, allo stesso tempo, lo disciplina. Turan e Savi sembrano condurre la loro indagine proprio da questa posizione strategicamente ‘ingenua’, adottando uno sguardo archeologico sul presente e su quegli oggetti, luoghi e processi che regolano la produzione di senso, individuale e collettiva, rivelandone l’ambivalenza quanto la concretezza.

Il tema emerge con immediatezza nell’opera Untitled(2025) di Benjamin Savi, che ripropone un esercizio di scrittura corsiva delle scuole elementari su un’insegna luminosa posta all’ingresso dello spazio. Fuori dalle pagine di un quaderno, il lavoro pone allora l’accento sullo spazio pubblico e sull’ordinamento di segni e simboli che lo definiscono, regolandone l’uso e l’attraversamento. In questo passaggio, l’esercizio assume un valore simbolico che trascende l’infanzia per interrogarci riguardo i nostri schemi di espressione e le funzioni che queste assolvono in termini di auto-rappresentazione e relazione.

Se Savi indaga la forma del segno, Turan ne esplora la consistenza fisica e politica attraverso grandi blocchi di gesso, realizzati durante una residenza al Circolo Scandinavo di Roma, che riproducono i gessetti bianchi per lavagne, ma in scala ingrandita. Il titolo in curdo, “Ziman zahmete, welat dure, birîn di giyan de kûr dibe” (2025) – traducibile come “La lingua è difficile, il paese è lontano, la ferita nell’anima si approfondisce” – colloca immediatamente l’opera nel contesto della storia personale dell’artista e della repressione linguistica in Turchia e, dunque, alla lingua come strumento di disciplinamento e cancellazione di un popolo. L’effetto di questo slittamento percettivo non mira alla monumentalità, ma restituisce all’apprendimento la sua dimensione corporea e materiale, mettendo in luce come ogni segno implichi una misura, una selezione, un addestramento e, insieme, una possibilità di scarto. La stessa sensibilità per la materia come archivio della memoria caratterizza anche Cluttered Paradise (2023-2025). Piccole sculture di fiammiferi in rame reggono calchi in stagno di zollette di zucchero. Il rame, tradizionalmente impiegato nell’artigianato turco, è un materiale che cambia e ossida nel tempo, registrando le tracce del contatto umano e dell’ambiente circostante. I fiammiferi, oggetti di uso comune divenuti nel tempo anche oggetti da collezione e spesso associati a luoghi di transito, assurgono qui a testimoni della quotidianità e della mobilità delle persone. In questa alchimia di materiali, l’artista cristallizza oggetti e rituali domestici in reliquie di un’identità diasporica, costringendoci a rapportarci con la fragilità e permanenza di queste esperienze.

Il percorso trova il suo compimento in una riflessione sulle origini pre-linguistiche dei processi di comprensione e interpretazione. In questa direzione si muove Postcards from Rome (2025), una serie di serigrafie realizzate da Savi, in collaborazione con Litografia Bulla, in cui l’artista stabilisce un dialogo esplicito con le vedute romane di Piranesi, per poi decostruirne la monumentalità attraverso un tratto volutamente infantile. La psicologa Rhoda Kellogg nel 1969 individuava negli scarabocchi infantili l’espressione di schemi neurologici innati, uniformi e transculturali. Il bozzetto si rivela così una forma di analisi spontanea e non mediata che l’artista utilizza per rapportarsi e interpretare la città di Roma oltre le abitudini visive e culturali.

Il lavoro, tanto artistico quanto curatoriale, realizzato sulla dimensione e sul vuoto definisce l’esperienza della mostra, rendendo lo spazio di Lateral non un’aula di disciplinamento, ma espansione di una pagina bianca su cui si stratificano i processi di sintesi e rimozione messi in atto da Savi e Turan. Una mostra che ci ricorda come la prima coordinazione occhio-mano non sia solo un fatto fisiologico, ma l’inizio di una complessa negoziazione, estetica, cognitiva ed etica, con il mondo.

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Fabiola Fiocco