In occasione della mostra personale di Jack O’Brien “A Formality” presso Ordet, Flash Art Italia propone il testo che accompagna il percorso espositivo.
Le dimensioni tattili della memoria e il loro potere simbolico costituiscono nuclei di interesse e ricerca per l’artista londinese Jack O’Brien. Le sue installazioni di grande formato – in cui convergono scultura, disegno e pittura – indagano come gli oggetti si impregnino di significati culturali e di associazioni personali, confrontandosi con le esperienze viscerali da essi evocate. L’opera di O’Brien è quindi permeata dai nostri desideri, in quanto l’alterazione e distorsione di materiali quotidiani operata dall’artista parla del modo in cui gli individui sono vincolati, plasmati e riconfigurati dalle pressioni ambientali e dall’influenza sociale, a volte in misura irriconoscibile.
Nella sua prima mostra personale in Italia, le sculture appaiono come un preludio, presentandosi non tanto come manifestazioni compiute quanto come indicatori provvisori, impalcature inserite all’interno di una struttura più ampia e in evoluzione. Tese tra il modello architettonico e la maquette, queste sculture non si concretizzano mai completamente nell’uno o nell’altra, ma occupano piuttosto una zona incerta, in cui scala e risoluzione rimangono insolute. Fondamentalmente, non si tratta di incompletezza, ma della conservazione di un senso di potenzialità, una qualità irrisolta che resiste la propria conclusione.
Nelle loro pieghe aleggia un’eco lontana della scultura rinascimentale, in particolare del drappeggio che un tempo rivelava e, in egual misura, celava la figura. Eppure qui la figura è assente, risucchiata; ciò che rimane sono pieghe vestigiali, indurite e fossilizzate nel cemento, che sostituiscono gesti ormai privati di un corpo a cui ancorarsi.
Ridotte a mezzi così limitati, le opere si appiattiscono, pur mantenendo una scioltezza gestuale, come se stessero provando se stesse. I lavori appaiono come un reset, un ritorno a un punto prossimo allo zero da cui il linguaggio scultoreo può essere ricostituito: una ricalibrazione, più che una resa.
È in questo spirito che la mostra prende il suo titolo, “A Formality”. Un’espressione che appare procedurale, persino superficiale, eppure che, in questo caso riporta alla logica ricorsiva che informa questa serie: una performance di se stessa, un gesto che formalizza, senza mai finalizzare. I due nastri trasportatori incrociati su cui sono collocate le sculture fungono sia da plinti che da indicatori di processualità, contribuendo alla sensazione che esse siano presentate a metà percorso, in circolo, in corso d’opera. Il loro movimento è solo implicito: un ciclo infinito che inquadra le sculture sia come oggetti presenti che come immagini differite, in continua oscillazione tra punto d’arrivo e punto di partenza.
In questo senso, “A Formality” si colloca in un ciclo autoreferenziale più ampio: le sculture guardano sia avanti che indietro, ripercorrono le condizioni della propria creazione proponendo al contempo un nuovo orizzonte. La loro rilassatezza non è casuale, ma strategica: un modo per non tradire il loro significato, per il tempo necessario a mantenerlo instabile.




