Tra modulazioni dello spazio e forme situazionali aperte, talvolta partecipative, le opere realizzate dal collettivo ucraino Open Group (Yuriy Biley, Pavlo Kovach, Anton Varga) si impongono con immediatezza anche a chi non conosce il contesto che le ha generate. Scendendo le scale che collegano la reception della Tenuta Dello Scompiglio ai suoi ambienti espositivi sotterranei, si incontra “Years” (2025), l’inedito intervento site-specific concepito per gli spazi dell’associazione culturale e curato da Angel Moya Garcia.
L’installazione, di proporzioni monumentali, consiste in una serie di numeri restituiti da grandi schermi piatti: alcuni disposti a terra, altri leggermente sollevati, tutti montati su una piattaforma metallica attraversabile. La superficie riflette la luce degli schermi in una sala volutamente lasciata in penombra. Essendo questi “anni”, come suggerisce il titolo, ripresi attraverso una camera fissa, non è subito chiaro se si debba attendere che qualcosa accada, se ciò che vediamo sia un frammento di pochi secondi o una registrazione protratta per ore. Gli anni indicati stessi diventano così i veri e unici protagonisti delle inquadrature, dalle quali emergono soltanto informazioni circostanziali marginali.
A guidarci nella fruizione dell’opera è tuttavia la familiarità del carattere tipografico che compone queste sequenze numeriche. Cifre scritte in caratteri eleganti e dalle grazie nette, riconducibili a contesti commemorativi. È un indizio discreto ma decisivo, che orienta il nostro sguardo verso l’oggetto della visione. Stiamo osservando gli anni del conflitto tra Russia e Ucraina che, in corso dal 2014 e ancora senza prospettive di risoluzione, è stato aggravato dall’invasione su larga scala dell’Ucraina avvenuta più di tre inverni fa. Alcune di queste date, delle quali possiamo osservare soltanto la parte finale, appaiono incise su lastre marmoree, altre appaiono in una tenuta “provvisoria”, verniciate su colate di cemento.
Le opere di Open Group contengono spesso un sottotesto che ne alimenta la dimensione concettuale. Quando chiedo a uno dei membri del collettivo cosa, o chi, inizialmente queste date commemoreranno, mi invita semplicemente a leggere un breve paragrafo del testo di sala. Apprendo quindi che, in questa installazione, gli anni di conflitto sono stati tracciati mediante il susseguirsi temporale di decessi di persone legate da relazioni comuni.
Alcune, appartengono ormai all’immaginario nazionale. Sono i nuovi “eroi” che la guerra ha contribuito a creare e, al tempo stesso, ad annientare. La durata del conflitto diventa, per me che attraverso l’installazione, una presenza tangibile. Non più soltanto frammenti mediatici filtrati da telegiornali, podcast o titoli di giornale, ma un’entità fatta di vissuti storici e collettivi.
A differenza di pratiche artistiche più immediatamente testimoniali, il senso spaziale è stato disposto, oltre che attraverso la vista, in particolare di simboli commemorativi che riconosciamo, anche con il suono. Rumori di passanti, un allarme antiaereo, fruscii intermittenti. Sono tutte tracce sonore che accompagnano le immagini e restituiscono un’esperienza di spazio che, una volta appresa la sua immobilità apparente, viene percepita come in graduale trasformazione, talvolta in senso minaccioso.
Anche in altre opere di Open Group, il rapporto tra opera e spettatore si compie in una dimensione 1:1 con un reale che solo raramente si manifesta nella sua interezza. Se, per esempio, in 1972—2022 / 1981—2022 / 1995—2022 (2022), presentato per la quarta edizione di Autostrada Biennale in Kosovo, le planimetrie di tre musei distrutti durante il conflitto erano state riportate a grandezza naturale sul suolo dell’ex base militare tedesca KFOR, dove la biennale oggi viene organizzata, e se in Repeat after Me II (2024), progetto per il Padiglione Polonia della 60ª Biennale di Venezia, i suoni della guerra emergono attraverso la rievocazione vocale di alcuni rifugiati civili ucraini, in Years sono le date stesse a diventare presenze nello spazio rese significative dalla rete di relazioni che le uniscono, e che oggi appaiono sfilacciate. Come spettatori, siamo invitati a percepire la proposta di Open Group anzitutto con il corpo, inserendoci in quella socialità interrotta e lacerata dalla guerra.
Pur nella loro efficacia minimalista, le installazioni create da Open Group risultano pertanto dense di significato. Come avviene per molti artisti ucraini che hanno raggiunto una visibilità internazionale soprattutto dalla seconda metà degli anni 2010, il conflitto entra nelle opere. Nel loro caso, tuttavia, raramente viene affrontato in maniera voyeuristica, mostrando direttamente gli orrori e le violenze della guerra. Le loro installazioni diventano monumenti in cui l’assenza è certamente la protagonista: l’assenza di ciò che non è più visibile, di chi non può più essere restituito né dai fatti, né tantomeno dalle immagini.




