Angel Moya Garcia: Memoria e oblio, appartenenza e identità, paura e solitudine, nascita e morte sono alcuni dei concetti ricorrenti in tutti i tuoi interventi. Nella realizzazione dei diversi lavori e prima di consegnarli allo spettatore, che ruolo ricopre la tua autobiografia e in che modo riesci a spogliarti successivamente di essa?
Chiharu Shiota: Ho sempre la sensazione di perdere qualcosa di particolare nella mia vita, che qualcosa mi sfugga per sempre, quindi forse questo è quanto la mia autobiografia influenza il mio lavoro e questo è il motivo per cui di solito raccolgo oggetti di altre persone. Questo sentimento non svanisce mai, mi perseguita, mi segue in tutti i miei lavori. Io colleziono e raccolgo memorie e ricordi, così quando ricevo lettere, vestiti, chiavi o valigie, posso intuire le storie che le persone hanno vissuto o quelle che stanno vivendo. Le persone non sono fisicamente qui con me, ma avendo i loro oggetti posso avvicinarle, come se potessi costruire un’esistenza assente. Infatti, la maggior parte del mio lavoro si basa sul tema “esistenza dell’assenza”.
AMG: Nelle tue installazioni una caratteristica predominante è la solitudine in cui lo spettatore viene inghiottito attraverso un’atmosfera intima e lacerante che origina un eloquente silenzio. Tuttavia, risulta frequente che per realizzare alcuni dei tuoi lavori venga richiesto a un vasto pubblico di donarti lettere di amore, vestiti, chiavi, valigie o scarpe, solo per citare alcuni esempi a cui accennavi prima. Quali sono le motivazioni che ti portano a tentare di creare dispositivi condivisi e in che modo entra in relazione la tua identità con il tessuto collettivo a cui ti rivolgi?
CS: Vestiti, chiavi, scarpe o valigie sono elementi che appartengono a tutti gli esseri umani, me compressa, è il loro modo di collegarsi alla vita, è il loro modo di essere, di rappresentarsi e di raccontarsi. Loro hanno una storia da raccontare, una memoria piena di ricordi, e lo possono fare attraverso questi oggetti di uso quotidiano.
AMG: I tuoi interventi più noti vengono realizzati attraverso fili di lana nera che intrecci in un lungo processo, fino a condensarli in una fitta tessitura, intrappolando oggetti di uso quotidiano che perdono la loro funzionalità e rendendo lo spazio impenetrabile. In altre occasioni invece il filo diventa rosso assumendo una connotazione molto diversa. In base a quali criteri scegli gli oggetti che vengono racchiusi all’interno delle tue installazioni e che valenza simbolica acquisiscono in ogni caso?
CS: Io scelgo tutti gli oggetti che uso nelle mie composizioni per costruire le diverse narrazioni. Io tesso e intreccio, trasformando i fili in autentiche reti che catturano e isolano questi elementi, come un insieme di parole che raccontano una storia. In questo senso posso dire che i fili neri rappresentano una sorta di cielo notturno mentre quando utilizzo i fili rossi questi tendono a rappresentare parti del corpo. Ad esempio, nel lavoro In Silence, il piano che brucia non ha alcuna funzione ma la sua bellezza rimane. La storia dietro il pianoforte deriva dal fatto che una volta ho visto un incendio in casa del mio vicino. Dopo l’incendio, loro avevano messo il pianoforte bruciato all’esterno e io mi sono imbattuta in questa visione. Ho pensato che il piano era ancora più bello e più forte, anche se aveva perso il suo suono. Circondando e intrappolando il pianoforte con i fili neri cercavo di fare musica con le mie mani.
AMG: Nella tua ricerca possiamo parlare di atti performativi a posteriori in cui ore di movimenti silenziosi, composti da gesti ripetitivi e maniacali, lasciano spazio a un’assenza che si rivela solo attraverso le tracce che si depositano in tutto il processo di allestimento. Un’esperienza del reale che diventa apparentemente statica, congelata nel tempo della rappresentazione, ma che si dilata ed esplode nello spazio dell’immaginazione. In che modo riesci a interpretare lo spazio che ti si presenta di volta in volta e quali sono le tue ossessioni o esigenze nel momento in cui devi studiare come impostare un nuovo lavoro?
CS: Personalmente amo gli spazi vuoti e soprattutto amo il tempo che trascorro camminando all’interno di uno di questi spazi come gli edifici abbandonati o gli spazi espositivi con cui vado a confrontarmi. Sento come se il mio corpo e il mio spirito trascendessero una certa dimensione e in quel momento capisco che posso ripartire da zero. In uno spazio vuoto io posso rintracciare la vita di qualcuno che è già vissuto lì o almeno posso tentare di intuire qualcosa che è accaduto prima del mio arrivo. Credo che in realtà non si tratti di un’ossessione, ma di una necessità nel mio lavoro.
AMG: Per il Padiglione Giapponese alla 56ma Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia hai ideato The key in the hand, una nuova e imponente installazione configurata attraverso due barche, del filo rosso e un ingente numero di chiavi cariche di ricordi che si sono accumulati nel corso di un lungo periodo di uso quotidiano. Com’è nata l’idea, in che modo il lavoro si relaziona con la memoria dello spazio e che legami pensi si possano attivare sia con i donatori anonimi delle chiavi che con chi assisterà alla Biennale?
CS: Nel corso degli anni, credo che tutti gli artisti che sono stati invitati a rappresentare il Giappone alla Biennale di Venezia vivevano in Giappone, quindi credo che ci sia un leggero cambiamento questa volta, una tendenza diversa, in quanto io vivo in Germania da diciassette anni. Forse questo è l’elemento più importante della mia partecipazione. Vi è una prospettiva più ampia e più aperta per l’arte attuale. Per quanto riguarda il mio lavoro, ho realizzato un’installazione in cui lo spazio è stato riempito di fili rossi pendenti dal soffitto; all’estremità di ogni filo è stata attaccata una chiave. Una sorta di simbolo della stratificazione dei ricordi. Sotto i fili con le chiavi vediamo due barche poggiate a terra che rappresentano metaforicamente due mani che raccolgono nel loro incavo la pioggia dei ricordi che scende dal soffitto. Credo che il rapporto tra le chiavi donate e i visitatori possa svilupparsi considerando che ognuno possiede delle proprie chiavi o conserva una vecchia chiave, in questo senso detiene quindi un ricordo. Le chiavi appese che io presento e le chiavi dei visitatori sono collegate e il loro legame è memoria. Essi sono un mezzo e contengono i nostri veri sentimenti. L’opera ci stimola ad andare alla ricerca dei ricordi che vivono in noi.