A partire da questo numero Flash Art esplora il mondo del collezionismo in Italia. Questa volta abbiamo intervistato alcuni collezionisti milanesi per conoscere la loro storia, i loro gusti, i nuovi orientamenti dell’arte contemporanea.
Antonio Manca
Consultant presso Provantia srl
Come hai iniziato ad aprirti all’arte? Qual è stata la prima opera che hai comprato?
AM: Il mio approccio all’arte inizia circa venticinque anni fa, grazie al fatto che in quel periodo ho iniziato a collaborare con bravi (e famosi) architetti e interior designer; inoltre la frequentazione con alcuni artisti ha in gran parte contribuito alla decisione di collezionare arte. La prima opera che ho acquistato in assoluto è di Sironi. È stata la prima, ma non la più importante e posso definirlo un acquisto casuale; mi piaceva il tema e costava relativamente poco.
Compri affidandoti al gallerista o preferisci il rapporto diretto con l’artista?
AM: Entrambe le cose. Mi fido molto dei galleristi con cui opero, ma non disdegno, anzi perseguo la conoscenza dell’artista, non per acquistare direttamente, ma per capire il contesto in cui si sviluppa il suo discorso, per farmi un’idea della coerenza, delle progettualità future, e di tutto ciò che mi dà la certezza di avere di fronte un artista “vero”.
Sei sempre stato soddisfatto dalle opere che hai acquistato?
AM: In prevalenza sì, mi sono pentito raramente anche quando gli acquisti erano puramente emotivi, legati all’arte non storicizzata, sconosciuta, come il periodo iniziale dei “cinesi”, dell’arte asiatica o delle installazioni. Ora, per vari motivi, sono particolarmente attento e anche se sbaglio mi pento raramente, ma potrebbe ancora succedere.
Ci sono opere che non hanno avuto grande successo economico ma che ricompreresti ancora se potessi tornare indietro di dieci anni?
AM: Sì certo, per esempio la fotografia americana, tra cui i lavori di Catherine Opie, Sandy Skoglund, la stessa Nan Goldin, Robert Frank, Bill Owens e passando ad altre realtà quelli di Araki, Morimura e, perché no, Orlan e Gligorov. Comunque, ritengo che in una collezione ragionata e strutturata il valore economico sia secondario rispetto al progetto che persegui.
Che cosa cerchi in un’opera d’arte? Potresti affermare che la tua collezione segue un gusto o una direzione particolare?
AM: In un opera d’arte cerco il contesto in cui si esprime, il legame con il sociale, ma anche i richiami, i rimandi ai miei canoni estetici. Posso dire con certezza che la mia collezione non segue un gusto, ma forse una direzione. Sicuramente ha una propensione multietnica, internazionale, dove convivono decine di artisti di nazionalità diverse e che si esprimono con linguaggi completamente diversi, il cui unico filo conduttore è quello del contemporaneo con una forte interazione con il futuro.
Acquisti di più alle fiere o direttamente in galleria? E a quale fiera ti piace andare?
AM: In fiera osservo, mi confronto con gli operatori siano essi galleristi, curatori, artisti o advisor, poche volte compro, di solito lo faccio in galleria. La fiera, o meglio, le fiere che preferisco sono le newyorkesi Armory, Volta e Scope; mi piace anche Arco a Madrid e Frieze a Londra. In Italia vuoi per convivio vuoi per osservare che cosa succede, le frequento tutte.
Ivan Frioni
Avvocato presso lo Studio Gulotta Varischi Pino, Milano
Mi racconti come hai iniziato ad aprirti all’arte? Di solito c’è sempre una guida…
Ivan Frioni: L’interesse – che risale a diversi anni fa – è nato in modo spontaneo e non riguardava l’arte contemporanea ma quella antica e moderna. Il passaggio al contemporaneo è avvenuto in modo naturale.
La decisione di acquistare opere d’arte è ancora successiva, piuttosto recente, e non so nemmeno precisamente a cosa collegarla. Forse, all’inizio, cercavo semplicemente di colmare un vuoto. Infine, sì, l’incontro decisivo c’è stato, anche per me. Ho una guida, che però non sa di esserlo, e questo rende l’insieme ancor più divertente.
Qual è una delle opere che ti è piaciuto di più acquistare?
IF: Il piacere dell’acquisto è sempre presente ed è, soprattutto, indifferenziato; non varia in base all’opera. A variare è il piacere successivo, quello che subentra al momento del possesso. È in quel momento che intervengono le differenze.
Il collezionista è ormai una figura poliedrica, ovvero non solo collezionista. Ti piacerebbe un giorno poter esporre la tua collezione in qualche museo? O addirittura curare?
IF: Non ci ho davvero mai pensato, ma in questo momento mi sembrano entrambe ipotesi poco realistiche e, forse per questo, poco appassionanti.
Preferisci comprare alle fiere o direttamente in galleria?
IF: In galleria.
Segui una linea in particolare?
IF: Avrei voluto, ma ho desistito quasi subito.
Molti mi dicono che sei “la speranza di Milano” come nuovo collezionista perché ti sei aperto a gallerie particolarmente giovani…
IF: Non credo che qualcuno possa averlo detto. O mi stai prendendo in giro tu o quei “molti” hanno preso in giro te…
Hai iniziato a collezionare subito artisti giovani, anziché andare sul sicuro. C’e una motivazione nella tua scelta?
IF: Anche in questo caso è stata una scelta naturale, quasi meccanica, forse perché quello che più mi interessa, in senso generale, è la ricerca. Più del risultato, è lo sforzo profuso a sembrarmi meritevole, anche quando il risultato si rivela insoddisfacente o l’obiettivo non viene raggiunto e ci si arresta allo stadio del tentativo.
T & C
Coppia di collezionisti
Da quanto tempo collezionate?
T: Io dal 1992. Insieme da dodici anni.
Vi ritenete collezionisti molto “disciplinati”?
T: Indisciplinati. I veri collezionisti sono altri, noi ci divertiamo.
Posso dire che, per Milano, siete già a un ottimo punto.
T: Sì, è probabile.
Alcuni collezionisti hanno una persona che guarda ogni giorno i siti di gallerie per loro. Voi come vi muovete?
C: Abbiamo dei galleristi di fiducia, che sono diventati amici. Come per esempio Laura Bartlett a Londra.
T: Poi Balice Hertling, Paolo Zani a Milano, Franco Noero, Kamel Mennour e Art Concept a Parigi. Daniele Balice è pop, Paolo Zani è un intellettuale, Franco Noero è l’eleganza assoluta. In qualche maniera siamo assolutamente eclettici. Se capisco troppo un lavoro, alla fine non mi interessa più. Ci deve essere sempre un elemento che credo di cogliere ma che in realtà non capisco e, anzi, mi disturba lievemente. Poi ci sono opere che amo a prima vista, tipo un Oscar Tuazon (indica un tavolo, scultura) che non aveva colpito C. A volte dobbiamo convincerci l’un l’altro.
Questo è anche un esercizio mentale per capire se veramente il lavoro vi piace…
T: Certo, e alla fine abbiamo preso quel lavoro di Oscar e una fotografia. Ci sono delle cose che, in un secondo, decidiamo e compriamo. Per esempio il neon We Die di Victor Man: l’abbiamo preso una mattina a Basilea da Zero senza pensarci.
Vi hanno messi in contatto? Oppure è stato un caso?
T: No. È stato quasi un caso. Le cose che ci piacevano le proponevano loro. Diciamo che questa cosa ci diverte tantissimo. Prendiamo le cose poco seriamente nel senso che desideriamo opere che ci divertono e molti acquisti sono casuali. Susan Philipsz per esempio: stavamo camminando il giorno prima dell’apertura della FIAC e l’opera era lì sull’alberello… Il giorno dopo l’abbiamo comprata. A volte le opere ci vengono incontro, non so come dire.
A chi ti rivolgevi prima di conoscere queste gallerie?
T: È stato un puro caso. Sono arrivato a Milano nell’85 per lavorare come assistente di Ettore Sottsass. Dopo un mese andai al cinema con un ragazzo americano dello studio e un suo amico che ci riportò a casa con una Renault 5. Gli chiesi “Cosa fai di mestiere?” e lui “Faccio il farmacista” e il ragazzo dello studio rispose “Non esattamente. Fa il farmacista di notte ma è gallerista”. Io, sempre più incuriosito, gli chiesi che tipo di arte trattava e lui sempre schivo rispose “arte contemporanea, concettuale. Guarda se vuoi venire in galleria tra un mese, non so quando, c’è una mostra di un artista svizzero che si chiama John Armleder”. Io conoscevo Armleder perché per me è una delle pochissime persone che mi ha segnato la vita, anche nel mio lavoro, con i “Furniture Sculpture”. Un giorno troverò il modo di averne uno, sono gli oggetti più simili a me, ovvero un mobile scassato di un’eleganza assoluta. Da quel momento, Massimo De Carlo e io siamo diventati molto amici. Seguendo lui sono entrato in tutto il sistema delle gallerie. L’ho visto nascere, ho visto i primi Cattelan.
Come dicevate prima non siete così disciplinati…
T: Assolutamente, non c’è un progetto. Non vogliamo che diventi un altro impegno da segnare in agenda.
Vi capita di più comprare alle fiere o in galleria?
T: 50 e 50 forse.
Mi sembra che andiate anche molto nelle gallerie, questa è una cosa veramente molto positiva.
C: Ormai abbiamo dei galleristi che come ti dicevo sono anche amici, ci chiamano anche per dirci “questo acquisto potrebbe piacervi”. Alla fine conoscono i nostri gusti.
Quali sono le fiere che frequentate più volentieri?
C: Ovviamente Basilea e Artissima in Italia.
T: Un’altra fiera che ci piace molto resta l’Armory, perché girare a Chelsea è sempre una sorpresa. Al di là della qualità dell’Armory, ci sono le gallerie, le mostre dei giovani di contorno.
C: Ora i galleristi ci conoscono, anche se fin dall’inizio c’è stata una certa fiducia. Per noi che siamo ancora piccoli collezionisti questo è l’unico modo per avere accesso a certe cose interessanti.
Qual è stata un’opera che è piaciuta subito a entrambi e vi è rimasta per tanto tempo in mente?
T: Henrik Hakansson, Massimo Bartolini, uno dei regali di nozze. E poi Armleder.
Visitate spesso Biennali?
C: La Biennale di Venezia è il nostro Disney World. Come dice T., uno degli aspetti più interessanti è il contorno di queste iniziative: stare con le persone del mondo dell’arte, incontrare gli artisti, gente con una sensibilità che ti fa vedere in modo diverso il mondo.