Giacinto Di Pietrantonio: Andiamo a ritroso e partiamo dalla descrizione della tua ultima opera, Questi tubi collegano tra loro vari luoghi e spazi dell’edificio. Quest’opera è dedicata a chi passando di qui penserà alle voci e ai suoni della città, realizzata nel grattacielo progettato da César Pelli nel contesto della riqualificazione dell’area di Porta Nuova, a Milano. Vorrei che parlandone sottolineassi il ruolo dell’opera pubblica, una problematica che caratterizza gran parte del tuo lavoro.
Alberto Garutti: È un’opera costituita da tubi di metallo ottonati che attraversano una cavità dell’edificio, e così facendo ne mettono in connessione vari spazi. Come recita il titolo, l’opera è dedicata a tutti coloro che passando di lì penseranno ai suoni della città.
GDP: La committenza è un aspetto molto importante del tuo lavoro. Com’è nata l’opera?
AG: Sono stato invitato da Manfredi Catella, amministratore delegato di Hines Italia, la società immobiliare che ha voluto il progetto di Porta Nuova. Fin da subito, la progettazione dell’opera ha presentato numerose difficoltà e ho dovuto quindi sviluppare un’idea per intervenire nello spazio pubblico, comunque tenendo conto dei suoi utenti: i cittadini. È stimolante pensare a un’opera che presenti delle difficoltà, perché credo che da sempre l’artista abbia avuto a che fare con la nozione di limite. Pensiamo all’arte del passato, al più grande committente della storia, la Chiesa, che con le sue imposizioni non ha fatto altro che condizionare gli artisti… Eppure ciò ha stimolato nuove progettualità, creando straordinarie opere d’arte. Non credo infatti che l’arte abbia a che fare con una sorta di libertà anarchica.
GDP: Hai sempre voluto fare l’artista?
AG: Mi viene in mente la mostra “Opera Prima”, che hai organizzato nel 1994 a Pescara, per la quale mi hai chiesto di presentare un’“opera” realizzata in gioventù. A casa di mio padre trovai una quadro a tempera che avevo dipinto a tredici anni, tra la fine della terza media e il primo anno di liceo. Quell’estate la mia vita cambiò: l’idea dell’arte era già presente in me sin dalla prima adolescenza. Mi fece immensamente piacere ritrovare quel quadro: lì dentro c’erano inconsapevolmente stratificati Picasso, Matisse, come pure il senso prospettico rinascimentale; era rappresentata anche una finestra aperta. Insomma, indizi che avrei poi rintracciato anche nel mio lavoro successivo…
GDP: L’arte che sfonda l’architettura, come nella finestra, è un altro tema ricorrente nelle tue opere, che credo sia legato ai tuoi studi in architettura. Perché non hai studiato all’Accademia di Belle Arti?
AG: Ho studiato architettura proprio perché volevo fare l’artista. Perché credo che le arti visive siano esistite grazie all’architettura. Credo che l’architettura sia la grande madre che ha invitato l’arte, dicendole: “Cara pittura, vieni a sfondarmi i muri! Cara scultura, vieni a rendere complesso lo spazio!”. Per secoli l’arte è sempre stata concepita con queste finalità. Pensiamo agli affreschi di Giulio Romano nel Palazzo Ducale di Mantova, dove la pittura riveste interamente l’architettura, la fa virtualmente barcollare negandone il suo principale statuto, ovvero quello della stabilità.
GDP: L’idea di linea è ricorrente nel tuo lavoro. Il disegno viene prima di tutti gli altri mezzi?
AG: La linea contiene l’idea di disegno, e il disegno, in quanto prima formalizzazione di un’idea, contiene l’idea di progetto. La linea è anche metafora di una relazione, della connessione tra due punti. Mi interessa come le cose siano in relazione tra loro, e come ognuna sia la conseguenza di un’altra.
GDP: L’immagine della linea suggerisce anche come la tua pratica artistica si esplichi nell’insegnamento.
AG: In aula adotto lo stesso atteggiamento che ho quando concepisco un’opera pubblica. E l’insegnamento è a tutti gli effetti un prolungamento della mia metodologia di lavoro: è finalizzato alla costruzione di una relazione articolata che deve concretizzarsi in risultati tangibili. Mi piace stare con gli altri; l’incontro con gli studenti inoltre mi aiuta a capire qualcosa che non so.
GDP: Perché hai deciso di intitolare la tua mostra al PAC “Didascalia”?
AG: La didascalia è un elemento fondante del mio lavoro, in quanto dispositivo politico e civile. Nel sistema dell’arte l’artista è libero di agire come meglio crede, ma nella città deve scendere dal suo piedistallo e andare verso il cittadino. L’utilizzo della didascalia favorisce la comprensione dell’operazione anche da parte dello spettatore più comune. Non mi interessa che l’operazione venga percepita come opera d’arte, ma che se ne comprenda il funzionamento. In questo senso la didascalia è il dispositivo attivatore dell’opera. Come in tutte le mie opere pubbliche, l’intervento è sempre stato accompagnato da una didascalia. Nella mostra al PAC c’è un’opera il cui tema centrale è la didascalia, una sorta di mappa attraverso la quale lo spettatore può relazionarsi con i lavori dentro e fuori lo spazio espositivo.