Marta Savaris: Come ti sei formato? Quali sono i riferimenti del tuo pensiero e del tuo lavoro?
Alberto Scodro: Dopo essermi diplomato in restauro, ho conseguito la laurea allo IUAV di Venezia, dove ho incontrato professori e amici con cui si è sviluppato il mio modo di pensare l’arte. Ora alcuni professori sono diventati amici, altri amici sono diventati professori. Tra i primi riferimenti del mio lavoro c’è il quotidiano; mentalmente sono affascinato da molti artisti, ma le idee sono mutevoli, farti un elenco mi sembra antidemocratico.
MS: Mi interessa capire come arrivi a dare una veste formale ed estetica ai concetti fisici e architettonici che hai in mente. In che modi riesci a “mettere al mondo” le tue idee?
AS: Si formano da sole, non mi prefiggo mai schemi prestabiliti, ma cerco di lasciarle andare. Ho sempre provato meraviglia nell’individuare connessioni nell’esistenza. I lavori sono un fermarsi di dettagli disparati, sono a volte frutto di dialogo con amici, ma più precisamente rimangono delle matasse di energia che si auto-formano nel momento in cui vengono focalizzate. Sono un insieme di scelte tra una costante “attesa”, citando Lucio Fontana.
MS: In che misura le tue opere si definiscono site specific? Come ti poni nei confronti dei luoghi in cui lavori?
AS: Mi piace pensare agli interventi site specific come a un prolungamento o a una sottrazione dello spazio circostante, un dialogo tra le materie di cui io sono il mediatore. Ritengo site specific anche interventi di dubbia legalità quali Aria compressa, Against Mountain, Cross in the Side (2008-2009), che ho realizzato velocemente, senza il tempo per pensare o strutturare bene il lavoro; in questi casi si concretizza una necessità semplicemente per desiderio, e l’opera, seppur legata a un contesto e a un’intenzione di base, è molto più simile all’improvvisazione. Nei confronti dei luoghi mi pongo in modo analitico: a volte, il punto di partenza per un’installazione è una sensazione trasmessa dal luogo che la deve accogliere; altre volte, invece, credo che sia una certa capacità di riflettere attorno a un soggetto molto semplice, come è stato con l’installazione Fune presentata a Monotono.
MS: Come è nato questo recente progetto per Monotono?
AS: Da una collaborazione con il direttore Cristiano Seganfreddo che, dopo avermi mostrato lo spazio, peraltro già ben connotato in ogni suo piano, mi ha chiesto di proporgli qualcosa. Era incuriosito dal mio modo di interagire con strutture architettoniche e intervenire su spazi aperti. Da qui, l’idea di attraversare tutti i livelli di Monotono, arrivando a una contemplazione del cielo e pensando a un’installazione-macchina che trovasse la sua massima funzionalità o attività nel “brutto tempo”, o meglio nella pioggia, perché tutta l’installazione viveva dell’acqua piovana raccolta dall’esterno.
Partendo dalla fucina, cioè la pentola a pressione che permette il filtraggio dell’inchiostro su carta, ho costruito tutto attorno un meccanismo che la presupponesse come nucleo centrale. L’obiettivo della cottura era quello di far diventare il disegno architettonico in superficie da bidimensionale a tridimensionale: una sorta di scultura dello spessore della carta; contemporaneamente però l’inchiostro andava a ramificarsi sulla fibra e ad assomigliare a una pianta che cresce. Ho depositato allora i “quadri-scultura” risultanti accanto a piante di limone, per aggiungere all’operazione un livello linguistico che ironicamente intensificasse il significato complessivo dell’opera. Ho concepito tutto lo spazio come un’ascesa: nel piano sotterraneo una produzione, in quello intermedio un accumulo e all’ultimo un deposito.
Presenterò questo lavoro a Pechino, ad Art Beijing, ma porterò solo la fucina. L’idea di base sarà la stessa, tutto il resto cambierà. Non porterò con me nulla se non i fogli di carta e forse poco altro; lì mi procurerò tutto quello che mi servirà: l’opera nascerà un’altra volta, in un altro contesto. Speriamo in un felice dialogo. Questa tappa cinese sarà una grande sfida e occasione.