Nei tempi del Coronavirus Alessandro Michele lo incontro in videochiamata, dietro lo schermo del mio cellulare. Ma la distanza interpersonale imposta dalla Fase 1 di una quarantena che non ha precedenti non compromette affatto lo spirito del nostro appuntamento. Un faccia a faccia online e sotto vetro, che sembra offrire a entrambi un diversivo, un’occasione di scambio più rilassata e informale. Fortunosamente libera dai tempi stringenti e scanditi del lavoro, dalle domande di routine su contenuti e ispirazioni sulle nuove collezioni e sfilate a venire, che può spaziare dall’attualità alla memoria, e dalla moda all’arte e oltre. Lui sullo sfondo di una parete tempestata di reperti d’epoca e io, nel giardino di casa, davanti a una persiana bianca come una pagina ancora da scrivere.
La pagina, che auspico eterotopa (riprendo un termine coniato da Michel Foucault – e molto amato da Alessandro Michele – che definisce luoghi aperti su altri luoghi, spazi come lo specchio, che, per quanto connessi con il reale, ribaltano e ridefiniscono significati, forme e funzioni, parole e cose), di una conversazione che prende inevitabilmente il via dagli effetti del lockdown.
“Lo sopporto abbastanza bene”, dice, “immaginavo peggio. Alla fine ho trovato un sacco di cose da fare, oltre al lavoro che non è poco. Ora il tempo posso utilizzarlo come preferisco. E dedicare le pause ai miei interessi personali, che confluiscono poi nella mia ricerca.” Una ricerca, la sua per Gucci, che può spaziare dalla storia alla filosofia, e dall’etica all’estetica, coinvolgendo stilemi e icone dell’antichità classica così come costumi, dilemmi e aspirazioni della cultura contemporanea più alternativa. Ed è all’origine di una visione del lavoro che trascende gli schemi, diventa pratica eclettica, direzione creativa a tutto campo. Al punto da trasformare anche la release da sfilata in uno scritto a contenuto teorico, quasi un piccolo manifesto, una dichiarazione personale di intenti ricca di riferimenti culturali e autorali, che apre la mente, risveglia la volontà di sapere e di capire, coinvolge, intriga, emoziona il suo pubblico sconfinato, internazionale e trans-generazionale, che appare unicamente improntato da tratti estetici e sessuali non codificati. E popolato di identità mutanti, aliene, inconfondibili e affascinanti protagoniste di un parterre che, come ogni fashion show di Gucci, diventa a sua volta teatro, set cinematografico, quadreria di ritratti.
“La mia stanchezza dopo tanti anni di lavoro nel settore, era proprio legata all’idea che la moda fosse pura omologata categoria merceologica, un linguaggio a mio parere assai svilito e depotenziato.”, spiega.
Non a caso, lui le ha fatto riconquistare la capacità di formulare e diffondere dei messaggi, innestare e velocizzare dei processi. Come, ad esempio, i liberi fluidi sconfinamenti nel genderless delle identità di genere, di cui ha reso il brand attivo portavoce, trasformando la moda in una spettacolare espressione di sé, una proclamazione di identità, autoconsapevolezza e libertà di essere, uno statement di appartenenza estetica e culturale che trascende l’ovvio, privilegiando avventurose associazioni, ibridazioni e mescolanze.
“Non è difficile notare che i topoi della società, che dovrebbero riguardare e argomentare la politica, non esistono più”, conferma lui. “E in mancanza di quello, un po’ come è successo alla fine degli anni Sessanta, ecco che il linguaggio delle immagini, aperto al pubblico, alla frequentazione e all’interpretazione di tutti, come quello dell’arte o della moda, diventa uno scivolo, uno strumento di divulgazione e di sensibilizzazione diretto e velocissimo.”
Trasformato in un brand che interviene a tappeto nei progetti, negli eventi, nelle iniziative artistiche e di cultura più innovative e alternative, Gucci intercetta, promuove e produce la ricerca contemporanea su scala multimediale e planetaria, testimoniando il cambiamento, le evoluzioni e mutazioni in atto, la varietà e molteplicità delle idee, gli umori e le aspirazioni che definiscono il nostro tempo.
“Ho tentato un’operazione al contrario con una piattaforma autorevole, potente e legittimata, che arriva a tutti e che tutti conoscono. Non relazionandomi con l’arte ‘established’, i grandi nomi e le sconfinate possibilità del mercato dell’arte… ma utilizzando quella piattaforma per dare ossigeno ai polmoni della ricerca, offrendole occasioni ulteriori, più ampie di respiro e di visibilità. Le mie collaborazioni sono sempre frutto di incontri, del dialogo che può scaturirne.”
Ora, ad esempio, è in corso al Daelim Museum di Seul la mostra prodotta da Gucci “No Space Just A Place. Eterotopia”, nata appunto dall’incontro di Alessandro Michele con la curatrice franco-tunisina Myriam Ben Salah, che ne firma concept e realizzazione. Primo evento pubblico in assoluto dopo il lockdown coreano, non rappresenta una geografica ricognizione e recollection dell’arte prodotta oggi in Corea, ma, in perfetta sintonia con il credo di Alessandro Michele, vede confluire in un medesimo contesto i gruppi dell’underground metropolitano, il versante più incircoscrivibile e sovversivo della ricerca, oggi peculiarmente interessante e prolifico a Seul. Documentando la creatività e i messaggi di collettivi ideologicamente e programmaticamente schierati, identità anonime, fluide e sfuggenti, proprio come quella delle sirene di Olivia Erlanger nel laundry mat, con la sommità umana del corpo infilata e celata nel cestello delle lavatrici, di un emblematico environment della mostra.
“Ho semplicemente conosciuto delle persone particolari, molto ricettive, che hanno funzionato da ponte, transitandomi in altri luoghi.”, spiega. “Mi hanno usato così come anch’io ho usato loro. Ci siamo usati a vicenda e l’insondabile potenziale di questo incontrarsi e relazionarsi continua sempre a incuriosirmi molto. Quando ho conosciuto Trevor Andrew, il mitico Gucci Ghost, ad esempio, è stato come incontrare un altro Gucci, un mondo parallelo e un altro modo possibile di esprimere la potenza del brand e del suo monogramma. L’arte per l’arte sinceramente… non è che mi interessi meno, è che amo di più approcciarla da guardone, in modi non consueti, non scontati. Non sono un purista, nemmeno nel lavoro, ma nutro una fede sincera in quello che faccio, per me è come una religione. In modo analogo mi relaziono anche all’arte, che deve attrarmi per ragioni misteriose e imponderabili.”
La concepisce come un incontro non programmato, una risorsa collettiva dello sguardo e dello spirito. Diffidando delle strutture e sovrastrutture che ne regolano il sistema.
“Sono convinto che dell’arte tutti noi abbiamo comunque e sempre bisogno. È eterotopia, una definizione che intitola anche il nostro progetto di Seul. Come uno specchio che mi attrae per la sua ambiguità, nei suoi modi di riflettere il reale, ribaltarlo e proiettarlo in un incognito, imprevedibile altrove.”
Interessante è notare come le parole e le cose, le figure e le stagioni chiave del sapere occidentale vengano ininterrottamente chiamate in causa nei suoi progetti e nei suoi modi di comunicare, dalla moda all’arte, e dalle sfilate alle mostre. E come, oltre all’antichità e all’archeologia, coltivi senz’altro il mito della cultura alternativa, dei maîtres à penser anni Sessanta e Settanta, del teatro sperimentale italiano, dell’attivismo politico e dell’impegno femminista, del cinema d’avanguardia o del maggio francese. Fonti d’ispirazione, referenti teorici e spunti di riflessione che riprende e condivide con le generazioni di oggi. Un tempo nel quale Alessandro Michele, affiancato dal compagno Giovanni Attili, docente di urbanistica all’università La Sapienza di Roma, si compiace nel proiettare le ombre lunghe e autorevoli di figure e opere del passato recente, centrifugando la moda con riferimenti al pendolo di Eco, al circo di Fellini o al teatro politico di Leo de Berardinis e Perla Peragallo.
“Ho una cultura fluida, funzionale, che posso usare come uso il colore, perché mi serve, perché vedo qualcosa o perché mi ha incuriosito qualche concetto, un argomento, una frase o un termine. La filosofia non l’ho studiata a scuola. È come tutte le cose con cui entro in contatto, le inutilità di cui sono grande appassionato, che alla fine utilizzo sempre.”
Da qui in avanti si entra nella mente del progettista di moda, un linguaggio per comporre e comunicare, nel quale confluiscono curiosità, passioni, incontri e interscambi diversi. Esperienze dello sguardo e del pensiero che, diventano materiali di lavoro e che, come per magia, contribuiscono a caricare di inedite luci e suggestioni l’immaginario di Alessandro Michele. Una moda emblematizzata da sfilate come, ad esempio, le due recenti “Microfisica dei pensieri” (Gucci SS20) e “The Ritual” (Gucci FW20), che torna a essere racconto, incantesimo di tapis roulant e scatole sceniche, teatrale coinvolgente e straordinaria mise-en-scène, che del sistema indaga i condizionamenti e, d’altra parte, mette a nudo la magia.
“Nello show dei tapis roulant, “NUOVE FORME DI SOGGETTIVAZIONE”, ho tolto tutto, reso tutto molto grafico, perché doveva risuonare qualcosa e non perché ero stufo del massimalismo. Io sono un massimalista, quello show era comunque massimalista, invadente, massiccio, dai colori alle dimensioni della catena degli occhiali al cardigan lilla da Sandra Dee su una modella mezza nuda sotto. Lo spazio poi era metafisico, c’erano il cielo, le aperture e le simmetrie della pittura rinascimentale.”
La voce di Fellini che parla del circo e il Bolero di Ravel hanno invece costituito la toccante colonna sonora di “UN RITO CHE NON AMMETTE REPLICHE”, che ha aperto al pubblico il backstage della sfilata, rovesciando le priorità in una straordinaria giostra di vestizioni in diretta, sotto vetro, che celebra la poesia del rituale e la miriade di ruoli e incarichi che lo rendono possibile.
“I ragazzi che di solito la sfilata la fanno e non si erano mai resi conto della potenza di quel rito, sono tutti scoppiati a piangere, hanno quasi avuto degli attacchi di panico. Ma nemmeno io ne ero consapevole, ero lì dentro con loro emozionato anch’io, avevamo provato pochissimo e stavamo tutti improvvisando.”
È un altro colpo ben assestato, un evento che catalizza e entusiasma il pubblico, che Alessandro Michele spiega con un “ho fatto quello che amo fare quando lavoro con la creatività: prendo una cosa, la sposto da un’altra parte e vedo se brucia.”
Aggiungendo e puntualizzando qualcosa che sembra stargli particolarmente a cuore e riguarda il suo modo d’intendere quel lavoro, mantenerlo libero, interdisciplinare e incondizionato.
“Dopo tanti anni, ho capito che alcune cose mi vengono anche bene perché non le so realmente fare. Ho bisogno del mio spazio e non mi considero un uomo della moda. Io sono un po’ come il mago di Oz, a me interessa che il meccanismo comunichi qualcosa di potente. Sono un direttore creativo e non un couturier.”
E non manca di entrare nel merito, esemplificando un modo di vedere e di pensare che spazia veloce, senza censure né remore, dal pubblico al privato, e dal professionale all’autobiografico, trasformando la bellezza in un frullato di esperienze dello sguardo, cose viste e vissute, ma anche sognate e immaginate da bambino, ricordi d’infanzia, memorie personali di facce, gesti e comportamenti, di scelte e attitudini, che restano vive nel pensiero, nutrono e argomentano l’oggi, ma anche le proiezioni nel tempo, le prefigurazioni del futuro di Alessandro Michele, come un ponte che rende intercomunicanti il prima e il dopo, i linguaggi e i contesti, le fogge dell’abito e l’identità di fisionomie umane diverse.
“A un certo punto ha cominciato a divertirmi il fatto che i vestiti fossero lo specchio di classi sociali, che indossarli in un modo strano faceva voltare qualcuno; erano un po’ insidiosi questi vestiti, queste pettinature…. Se vedevi la mamma sessantottina di un tuo amico vicino a quella che era moglie di un avvocato, facevano scintille. C’è una relazione che lega i modi diversi di apparire, si creano dei campi di energia fortissimi. Ho sognato a lungo di fare il costumista, ma mi sono convertito alla moda quando ho capito che, la possibilità di uscire dal teatro o dalla fiction cinematografica per vestire la strada, era molto più interessante. Gli abiti autorizzavano a fare e a dire delle cose anche non parlando.”, conclude.
E si ritorna a parlare della moda come strumento di sensibilizzazione e autodeterminazione, tramite veloce e persuasivo di idee e ideologie, epocali transiti, evoluzioni, trasformazioni, che ha aperto la nostra conversazione e pare tratto peculiare, distintivo del lavoro di Alessandro Michele per Gucci. Una moda a dimensione umana, che si confronta ora con il post-Medioevo del COVID-19, un tempo non ancora meditato, né metabolizzato. Una pagina bianca tutta da scrivere.
“Io sono un grande appassionato di umano, credo che l’umano sia capace di cose incredibili, che vigilerà sul cambiamento e indicherà la strada, le vie d’uscita. Questo presente che sa di peste medievale, secondo me ci sta ricordando che in fondo, in maniera molto pacifica, dobbiamo attaccarci al passato, al nostro ancestrale sapere. Questo segnale forte, che poi sfumerà fino a sparire a un certo punto, ci ha reso più capaci di produrre e di rielaborare, di trasformare, di rivomitare, di reinventare, di ritagliare degli spazi inaspettati e di trasformare in una forma d’arte il nostro vissuto, il nostro divenire. Quindi non credo alla fine, né all’inizio di niente, in fondo. Io credo che ci sia un movimento chimico molto potente, una forza che poco ha a che vedere con il nuovo, ma riguardi piuttosto la nostra ancestrale natura, il mistero stesso della nostra esistenza. Prima del cattolicesimo avevano già inventato delle divinità formato gigante, dei superuomini con le nostre sembianze. Siamo così complessi da poter rappresentare l’origine di tutto. Eppure in un lasso così breve di tempo, appena ci siamo ritirati nelle nostre tane, il resto della natura ha ripreso a camminare nelle città. I cerbiatti nei centri urbani, le papere in mezzo alle strade …E sembra che noi non serviamo più a nessuno, non ci possiamo neanche più toccare! È un esperimento antropologico unico al mondo, che ci obbliga a rimettere in gioco tutto il nostro passato e a interrogarci sulle radici del nostro sapere.”
La pagina del mio incontro con Alessandro Michele la concludo dirottando il discorso sulle false mascherine protettive in stile Gucci che circolano ora su instagram. È un’eterotopia che lo diverte.
“Come i Vangeli apocrifi!”, commenta. “Il fatto che non abbiano bisogno dell’etichetta né del marchio di garanzia non le rende in fondo meno autentiche della religione a cui appartengono!”