Le installazioni di Alice Cattaneo si presentano come liberi aggregati geometrici, modelli sintetici complessi, rappresentativi di una nuova estetica affidata a un’operatività fortemente controllata. Sculture essenziali nate forse dall’osservazione di quella “meravigliosa regolarità” propria del fenomeno evolutivo degli organismi naturali: impianti compositivi a schema frattale quale personale visualizzazione delle teorie del caso. Come immersa nei suoi pensieri, l’artista si lascia stupire dagli infiniti oggetti che trova intorno a sé, edificando arabeschi leggeri che ridisegnano l’ambiente. Strutture composte perlopiù da elementi provvisori come assi di legno di vario formato su cui poggiano fogli di cartoncino grigio, oppure sottili bastoncini di balsa messi in tensione da pezzi di nastro adesivo colorato. Una grammatica eterogenea che può con molta facilità essere associata allo sviluppo crescente della metropoli contemporanea. Attraverso un recupero dell’artigianalità che testimonia l’aspetto performativo dell’opera, Alice Cattaneo fa un uso improprio di materiali consueti, presi in prestito dal repertorio del bricolage, esibiti tali e quali e assunti come unità costruttive con cui andare a comporre strutture dinamiche, architetture instabili, affidate al contempo a precisi bilanciamenti di peso e accurati calcoli fisici. Architetture minime, a volte quasi invisibili, che proliferano nello spazio, andando a distribuirsi secondo un ritmo frammentario, fatto di piani e linee, lungo le pareti, sul pavimento, sul soffitto, o fluttuanti nell’aria, sospese come fossero segni veloci, vortici energetici. Altre volte possono ricordare invece costruzioni destrutturate dalle superfici sghembe, piani scoscesi agganciati a esili impalcature precarie, sempre sull’orlo di precipitare. Un nonsense costruttivo che torna anche nelle micro storie che l’artista affida al supporto video. In 8Acts & 3Finale (2003) — brevi sketch della durata di qualche secondo, non privi di un’imprevedibile comicità — emerge un medesimo approccio concettuale finalizzato alla valorizzazione di ciò che normalmente viene considerato marginale. Piccoli teatrini a bassa definizione in cui compare un analogo repertorio oggettuale affidato a materiali di recupero — ritagli di stoffa colorata, pongo, scotch, cartone — assemblati in un equilibrio instabile capace di restituire l’emotività di un gesto.