“La scultura ci interroga sul valore delle forme che stiamo vivendo sulla nostra sedia e con la pagina aperta del nostro libro che sarà da rileggere per l’ennesima volta”. Molti degli interrogativi sollevati da “Props”, prima personale di Andrea Bocca a Palazzo Monti, paiono racchiusi in questo suggestivo tentativo di sintesi. L’affermazione proviene dal libretto di sala, cofirmato dall’artista e da Lisa Andreani, una fonte preziosa per captare lo spirito dell’impresa. La confezione di questo opuscolo molto può dire non solo sulla mostra in sé, di cui pare costituire un’emanazione in miniatura, quanto su come Bocca concepisca il fare scultura in qualità di processo e di progetto o, più precisamente, di mestiere. Avviciniamo dunque l’esposizione mutuandone la logica strutturale, immaginando la personale come suddivisa in tre atti o, per dirla con l’artista, in un trittico di gesti.
Atto primo. Varcato l’ingresso, lo spettatore viene sospinto nel buio. Circospetto, questi percorre due rampe dello scalone d’onore: l’oscurità si dirada e un suono meccanico, ripetitivo, ne scandisce il passo. Click clack, andatura titubante, pupilla che si adatta alla penombra. L’approdo della promenade coincide con una pausa e, nella fattispecie, con una balconata che si affaccia su un grande schermo appeso alla parete antistante. Un carosello di scansioni scorre in loop esibendo una serie di scatti il cui contenuto, sempre più luminoso, prende lentamente forma. La creatura che singhiozza e di cui il nucleo di fotografie celebra le gesta è una lampada girasole degli anni Settanta stipata in un armadio. Nel video monocanale Cabinet (2023),essa trasfigura il proprio habitat angusto in un florilegio di universi di luci e colori che trasudano sull’architettura circostante. Stabilire lo statuto della primissima opera di Bocca catapulta il visitatore tra i caratteri tipografici del testo e, fuor di metafora, nell’anzidetta macchina tautologica. L’opera – la scultura? – si realizza nella performance del corpo in movimento, nella presenza plastica di uno schermo pittorico, nell’azione modellante della ripresa in cui la luce scolpisce la materia (lo spazio dell’opera) e l’ambiente (lo spazio attivato dall’opera). Epilogo atto primo, quesito antico: cosa qualifica una scultura?
Atto secondo, in cerca di tracce. Piano nobile, il percorso diviene orizzontale. Il primo “gesto” che l’artista progetta si concretizza nella scultura-display Book #0 (2023), un’architettura di pannelli contenenti una serie di cianotipie intelaiate su supporti tridimensionali. La scultura è un gesto elastico in viaggio tra i linguaggi, un camaleonte che, inerpicandosi tra le fonti, tradisce la propria invenzione intermediale. Chiediamoci: è una scultura quella in cui si imbatte lo spettatore? Sì, se la si pensa in quanto scultura e si è disposti, come gli anni Sessanta insegnano, a vagliarne i caratteri strutturali a partire dalla sua storia. Il catafalco di Bocca è monumentale nell’effetto, ma non nelle premesse, esportando la planimetria e l’ideale funzionamento dall’oggetto catalogo. La scultura, poi, è solo apparentemente scesa dal piedistallo, facendosi quest’ultimo piccino piccino come le ruote che sorreggono le tavole-pagina. Le cianotipie, prodotte a partire da documenti preesistenti, affiorano plastiche dall’esoscheletro quali sua naturale estensione. La scultura oscilla tra superficie e terza dimensione: fattore ancora più rilevante e intrinseco al medium, essa negozia il proprio spazio con la cornice affatto neutrale del palazzo. La scultura non soggioga né si sottomette al medesimo: è un display nel display, un oggetto che performa uno spazio immaginario – il desiderio di mutarne la configurazione, “sfogliandolo” – ed è performato dall’ambiente – i fianchi affrescati che cingono il dispositivo, rendendolo imponente.
Atto terzo, controcanto del gesto anzidetto. Per Bocca, lo si sarà intuito, progettualità e misurabilità possiedono una valenza autoriale. L’ultima sala della personale ospita Table with three chairs (2023), una scultura-protocollo istituita su marcatori corporei che definiscono la nostra esperienza quotidiana dell’ambiente. Il suo piedistallo mutua la propria altezza da una seduta standard. Disponendo una sintesi plastica del percorso, quest’ultima performa in tre frangenti spazio-temporali il proprio processo di invenzione. Ruotiamoci attorno: una superficie flessa e idealmente in equilibrio tra parete e pavimento schiude il limbo delle forme, un lembo umbratile in cui le cose, semplicemente, stanno. L’angolo che essa nasconde si reifica in una coppia di angoli veri e propri che ospitano rispettivamente volumi cilindrici e materiali di scarto. La scultura è nera di pece perché, si dice, vorrebbe inghiottire il mondo che la contiene e che essa, almeno parzialmente, ri-produce.
La scultura ci interroga sul valore delle forme… ma dove si colloca, esattamente, la scultura? Tra le dita laboriose, nell’etere, nell’immaginazione di chi la esperisce o in quella di Bocca? Click clack, tempo scaduto, benvenuto multiverso: della coda ricciuta del camaleonte si sono perse le tracce.