A più di trent’anni dalla sua scomparsa, Flash Art ricorda Andrea Pazienza riproponendo una lettura della sua opera di Giacinto Di Pietrantonio, pubblicata originariamente in Flash Art no. 285, Luglio 2010.
Immagine di copertina: Fotografia di Isabella Damiani.
Circa venticinque anni fa, studente a Bologna, lessi una frase di Umberto Eco che diceva: “Andrea Pazienza è un postmoderno”, ma benché abbia cercato di rintracciarla, consultando libri, leggendo fumetti, navigando su Internet, ecc., devo confessare di non essere riuscito a ritrovarla. Fidatevi, però, della mia memoria, e fidatevi del fatto che vi propongo una lettura dell’opera di Andrea Pazienza come artista e non come “fumettaro”. Tuttavia, se non sono riuscito a ritrovare dove Eco scrisse quella frase, nel riprendere in mano l’opera e il pensiero, o meglio, il “de-pensiero”, per dirla con il suo conterraneo Carmelo Bene, ho trovato immagini e scritti che confermano la postmodernità di Pazienza, che è una delle linee di lettura attraverso cui analizzare il suo lavoro.
Pazienza è un artista che ha scelto il fumetto per esprimere la sua concezione del mondo e poterla meglio comunicare, perché: “Quello che mi interessa è comunicare, comunicare in un certo modo… Io sono alla ricerca continua di motivi validi per comunicare qualcosa…”. Una comunicazione che raggiunge con le sue storie e i suoi personaggi che fanno epoca, come Pentothal, Pompeo, Zanardi e tanti altri capaci come nessun altro di entrare in sintonia con lettori vecchi e nuovi, e i nuovi non sono solo appassionati del fumetto, ma soprattutto persone in cerca di un’identità smarrita, ma ben interpretata da Pazienza. Così, ri-rovesciando l’attitudine di Lichtenstein che prendeva brani di fumetto per farne arte, egli riconverte l’arte in forma di fumetto sostenendo che: “Per fare il fumetto bisogna partire dal segno. Il segno è una metafora meravigliosa, è la prima cosa che mi viene in mente… noi siamo circondati da oggetti depositari di un segno o da una serie di segni, dallo studio di questa serie di segni nasce la matematica del segno e cioè il disegno”. Ma ancora nelle sue dichiarazioni leggiamo pure: “E ringraziate che ci sono io, che sono una moltitudine”, frase che lo colloca in quella tradizione che sta a fondamento della postmodernità, e vale a dire l’Uno, nessuno e centomila di Pirandello e Una sola moltitudine di Pessoa. E difatti Pazienza è veramente una moltitudine di segni e di stili che cambiano non solo da una tavola all’altra, ma anche all’interno della stessa; è una moltitudine di scritti, di comportamenti, di idee, di produzione, di rivoluzione linguistica, visto che non era più possibile quella politica, espressa anche tramite le firme: AP, Paz, Apaz, SPAZ, Andrenza, Paperenza, APazienza, Andrea Pazienza Fazenda, Pazienza Prod., azneizaP, Pazienza, Andrea Pazienza.
“Andrea Pazienza piccola azienda del Mezzogiorno terremotato…” è però un postmoderno sui generis nel senso che se la postmodernità è stata a un certo punto bistrattata e messa da parte, in quanto copia del passato, apolitica, cinica, antimoderna, priva di utopia, malato terminale che professava la fine della storia, della filosofia, della modernità e finanche la fine del mondo, in Pazienza troviamo, invece, una versione rovesciata, in cui quelle negatività sopracitate hanno la dimensione del racconto politico e della resistenza quotidiana tipici della controcultura, che è il terreno scelto da Andrenza per mettere in discussione i linguaggi dell’arte. Difatti, non è un caso che spesso utilizzi riferimenti ad artisti e movimenti dell’avanguardia e non, attitudine derivata dalla consapevolezza che la sua opera è una questione che riguarda lo spostamento del significato dell’arte, che solo per scelta si esprime tramite le strisce, anche perché la prima cosa che egli mette in chiaro è la scelta del linguaggio e di campo, che è ciò che contraddistingue l’essere artista. Per questo nel 1974, ancora studente, entra nel sistema dell’arte, diventando socio della galleria d’arte pescarese Convergenze, centro d’incontro e di informazione, laboratorio comune, in cui espone, ma da cui esce dopo qualche anno. È una galleria polivalente tra i cui fondatori ci sono anche i suoi professori del Liceo Artistico pescarese, Albano Paolinelli e Sandro Visca, ma anche Elio Di Blasio, artista informale che aveva conquistato un posto nell’Italia dell’arte Informale, nonché maestro di Ettore Spalletti; lo spazio era diretto dall’intellettuale (termine che allora aveva ancora senso) Peppino D’Emilio.
Si tenga presente che in quegli anni Pescara è una città dove l’arte contemporanea trova asilo e dibattito, muovendosi tra l’arte cinetica di Getulio Alviani e compagni e i nuovi arrivi dell’Arte Povera, con Mario Merz, Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini, Gilberto Zorio, ma anche Joseph Beuys, che gravitano tra le gallerie di Mario Pieroni, Lucrezia De Domizio Durini e Cesare Manzo, seguiti dagli ulteriori arrivi di Gino De Dominicis, Sandro Chia, Francesco Clemente, Remo Salvadori e Marco Bagnoli, promotori del successivo cambiamento dell’arte verso gli anni Ottanta. Ma come detto, Pazienza esce quasi subito dal dibattito artistico che si sviluppa internamente a gallerie e musei, perché interessato a portare la sua arte e il dibattito relativo in un ambito più ampio. In tal senso egli segue la traiettoria di alcune pop star come David Bowie, o John Lennon che pur avendo fatto scuole d’arte sono alla ricerca di un linguaggio che permetta alla loro creatività di parlare al di fuori del linguaggio circoscritto dei musei. Si tratta di una traiettoria creativa ancora in fase di scrittura e valutazione, se si pensa che, per esempio, cantautori come Fabrizio De Andrè e Bob Dylan oggi vengono considerati non semplicemente cantanti e musicisti, ma poeti, e addirittura quest’ultimo viene proposto per il Premio Nobel. Pazienza parla di vita e di morte, di quotidianità e universalità con un lavoro colto i cui riferimenti sono tra la strada e la letteratura di William Blake e Melville, tra l’arte antica e moderna. È la moltitudine di Pazienza che dice di amare: “… Rembrandt, i futuristi, alcuni dada. Poi c’è Caravaggio… Poi c’è Canaletto…”. A ciò si aggiunga che egli ha un’attitudine futur-dada e difatti in una sua tavola troviamo disegnato un personaggio in abbigliamento kendo che, brandendo la spada verso i lettori, dice: “Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare un’intera via crucis con una semplice stretta di mano, o con una visita a un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d’amore”. Si tratta di una consapevolezza personale e di gruppo — quello delle riviste Cannibale e Frigidaire —, espressa nella tavola disegnata da Stefano Tamburini (1955-1986) che, utilizzando come base la fotografia del 1912 dei cinque futuristi a Parigi, vi sostituisce i visi con quelli di Tanino Liberatore (Russolo), Stefano Tamburini (Carrà), Andrea Pazienza (Marinetti), Massimo Mattioli (Boccioni), Filippo Scòzzari (Severini), un’identificazione, ma anche una premonizione visto che i sopracitati sono stati rimossi come lo furono i futuristi: fino a quando? Comunque, è chiaro, da questo disegno, che Apaz-Marinetti è considerato un artista apripista, un teorico consapevole di stare cambiando la storia, perché da Pazienza in poi, e su questo c’è convergenza critica, come era successo in Francia per Moebius, il fumetto non sarà più la stessa cosa, non sarà più fumetto, ma arte. Da allora in poi questo non riguarderà solo Pazienza, ma il fumetto italiano dei suoi compagni sopracitati che, pur avendo dei punti di tangenza, costituiscono l’alternativa “politica” e di resistenza alla postmodernità italiana mondana della Transavanguardia (arte), di Memphis (design), della Tendenza (architettura) e del Made in Italy (moda). Difatti, se l’approccio formale è simile, nel senso che questi autori, Pazienza in testa, hanno un’attitudine formale similare, in quanto producono tavole generate da riferimenti e citazioni a opere d’arte del passato, l’impiego che ne fanno, i contenuti di cui li riempiono non sono mondani, ma al contrario di rottura, a partire dalle pubblicazioni sulla rivista di satira Il male. Mitiche in questo senso le copertine di Pazienza, come quella con Totò che sberleffa i ministri con le sue frasi tipiche: “Lei un ministro? Con quella faccia? Ma mi facci il piacere! Non mi facci ridere!”. Oppure Paperenza è il primo a inserire nei suoi fumetti il dialetto, come aveva fatto Pasolini nella poesia, per esempio nel celebre fumetto Perché Pippo sembra uno sballato e tuti l’ati sturiellet, in cui ironizza su uno dei più noti personaggi disneyani, o creando delle frasi gergali che sono diventate dei modi di dire come: “È pesa, È pesa”. È un’operazione linguistica in cui fa incontrare locale e globale, volgare e colto che sono alla base della riscrittura di una lingua come è avvenuto in passato. Così scrive a tal proposito, parlando di Pazienza, il semiologo Omar Calabrese: “Il volgare è il perenne stato nascente del rinnovamento linguistico…Lo hanno fatto scrittori che poi sono entrati a far parte della storia della letteratura, come Dante Alighieri, o Rabelais, o il Ruzante… come Dario Fo col suo grammelot, come Diego Abatantuono col suo milanese meridional-metropolitano (di cui un giorno spero si percepirà il giusto valore), come Nino Frassica col suo siciliota”. Insomma, Andrea Pazienza Fazenda, innovatore a 360°, inventa una lingua che agisce tra l’italiano, il pugliese, l’accento bolognese e i gerghi giovanili. La sua non è un’arte che si lega all’edonismo che avanza, al riflusso che incombe, perché è anche voce della generazione del ’77 che a Bologna, dove Pazienza vive, esprime la contestazione come ala creativa, seppur come scrive Pier Vittorio Tondelli: “Andrea Pazienza è riuscito a rappresentare, in vita, e ora anche in morte, il destino, le astrazioni, la follia, la genialità, la miseria, la disperazione di una generazione che solo sbrigativamente, solo sommariamente chiameremo quella del ’77 bolognese”. Eppure Bologna ha un ruolo decisivo per la sua arte, perché è qui che con i compagni di strada sopracitati, soprattutto Tamburini, dà vita alla rivista Cannibale, il cui primo numero, con copertina di Tamburini e Mattioli, è contrassegnato arbitrariamente con il numero 3 in omaggio all’omonima rivista dadaista diretta da Francis Picabia e uscita solo per due numeri nel 1920.
Si tratta sempre di riferimenti all’arte, anche quando nel 1980 dà vita insieme agli stessi alla mitica rivista di “comunicazione totale” contenente arte, fumetto, inchieste, musica, politica, Frigidaire, volta a fare controinformazione nella società dello spettacolo. In questo la rivista è vicina alla cugina francese Actuel e anche a riviste di controcultura americane che si pubblicano tra San Francisco e Los Angeles, a quell’humus culturale che ha dato vita ad artisti come Raymond Pettibon, Mike Kelley e Paul McCarthy con cui APaz condivide l’utilizzo del segno del fumetto per una critica sociale. Ma a Bologna c’è anche Francesca Alinovi che si accorge che Pazienza è un artista e lo invita nel 1982 alla mostra collettiva “Registrazione di frequenze”, presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna, un’azione critica che compie un passo decisivo verso l’affermazione dell’arte al di fuori delle discipline tradizionali. In tutto ciò Pazienza segue sempre la sua strada che è quella della non omologazione anche stilistica, nascondendo o meno i segni dell’avanguardia tra le sue tavole, come per esempio Mondrian che diventa un particolare di una maglietta in Uomo che sbriciola il fumo (1984). Ma la cosa che convince di più in questa interpretazione è il fatto che Pazienza non è solo un ispiratore di intere generazioni per e nel fumetto, ma un artista che produce anche delle influenze nel mondo dell’arte, come in quella di Cecily Brown che si ispira a lui per molti dei soggetti dei suoi quadri, nascondendo spesso anche dei dettagli dei disegni di Apaz nei suoi dipinti. La sintonia non è solo pittorica ma, si badi bene, anche poetica, perché questa pittrice di corpi deve aver letto ciò che Pazienza diceva: “Il corpo è per l’artista un Teatro di Operazioni, l’ambito della ricerca, un modello sempre a portata di mano e a buon mercato, un Robot, l’avvio di una investigazione, la verifica del gesto, il veicolo dell’Arte e le arti altre”. Ecco ancora il pensiero e la carne di un artista mai omologato, come mai allineata è stata la sua vita e ancor meno la sua arte, da Pazienza “dedicata a tutti quelli che nel ’77 avevano vent’anni e che oggi ne hanno diciotto”.