Il titolo della mostra di Antoni Muntadas al Jeu de Paume di Parigi, “Entre/Between”, individua bene la posizione di intermediazione che è sottesa a tutto il suo lavoro. La mostra non è una retrospettiva, ma attraversa tutto il percorso dell’artista individuando nove costellazioni che legano opere diverse intorno a una tematica: microspazi, spazi pubblici, traduzione, sfere del potere, luoghi dello spettacolo, territori della paura, archivi, sistemi dell’arte, per finire con il paesaggio mediatico che in un certo senso li riassume tutti. Sono presenti anche alcuni suoi fondamentali lavori storici: Between the Frames, un’indagine sul sistema dell’arte in otto capitoli, realizzata tra il 1982 e il 1992 (centocinquanta interviste a persone che rappresentano il sistema dell’arte del loro paese, artisti, galleristi, collezionisti, da Pierre Restany a Harald Szeemann a Joseph Beuys), un’opera che svela il mondo dell’arte come sistema economico); The File Room del 1994 che esemplifica la nozione basilare di archivio schedando i casi di censura nell’arte. In questa occasione gli abbiamo posto alcune domande.
Laura Cherubini: Caro Antoni, tutto il tuo lavoro si configura come pionieristico. Sei stato un grande precursore sia dal punto di vista delle tematiche (il paesaggio delineato dai mass media; l’audience; il rapporto pubblico/privato; l’attenzione al contesto; lo studio della costruzione del consenso; l’indagine sui meccanismi del sistema dell’arte, la relazionalità); ma anche dal punto di vista delle modalità di presentazione del lavoro (sei stato tra i primi a usare Internet; usi di volta in volta il linguaggio che il lavoro richiede, foto, video o installazione; fai interagire i vari media; basi il lavoro sul montaggio). Quali sono secondo te i lavori caposaldo in questo senso?
Antoni Muntadas: Io non credo di inventare niente. Quello che faccio è guardare con intensità e curiosità. Cerco di comprendere qualcosa in più: il progetto, la metodologia da usare nello stesso e il modo di creare un processo di lavoro. L’arrivo ai risultati può richiedere anche molto tempo. Beetwen the Frames ha richiesto dieci anni di lavoro, The File Room tre. È il tempo necessario per svilupparli e per capire il contesto. Non sono un produttore di oggetti. Lavoro a un sistema composto da molti elementi. Posso usare l’installazione, il website, il libro, la serie fotografica… Sono elementi che compongono la totalità del progetto. Quando investi tempo investigando su un fatto si sviluppa l’aspetto critico. La ricerca è necessaria in una tipologia di lavoro come questo. Anche il lavoro sulla televisione e i mass media deriva da questo. È evidente che l’oggettività non esiste, a me piace definire l’idea che esista una soggettività critica. C’è uno spettro di domande. Che cosa? Perché? Come? La modalità di rappresentazione — il come — appare dopo.
LC: Una delle “costellazioni” che compongono la mostra al Jeu de Paume è dedicata al tema della paura e comprende anche un’indagine sull’iconografia della sicurezza.
AM: Quando ho cominciato il lavoro per “In Site” alla frontiera di San Diego/Tijuana nel 2003 era ancora vivo il ricordo delle Twin Towers. È con il crollo delle torri gemelle che George Bush ha cominciato a organizzare la strategia della paura. La prevenzione della paura da parte della politica è un esercizio di potere. Questo ha dinamizzato cose che esistevano. La paura è legata sia prima che dopo alla violenza. In On Translation: Fear/Miedo le interviste riguardano il piano personale, quello politico e quello mediatico della paura. Come la paura si interpreta e traduce differentemente dal Nord al Sud e viceversa. Il lavoro come proposta pubblica è passato alle tv di Tijuana, San Diego, Washington, Città del Messico. Segue un secondo lavoro: On Translation: Miedo/Jauf nel quale c’è la parola “Jauf” che in arabo significa paura, è realizzato tra il Nord dell’Africa e la Spagna, è stato trasmesso a Madrid e dalla televisione araba Al Jazeera. Questa serie trova una continuazione nell’ultimo lavoro Alphaville e Otros, dove si mette in atto un’analisi della paura come sistema di controllo. In questo lavoro di San Paolo del Brasile evidenzio l’economia della sorveglianza. Gli antifurti per le macchine o per le case, i muri e i cancelli, il controllo digitale, il sistema di sicurezza del circuito chiuso… costituiscono un business, un’industria molto sviluppata e produttiva. È la paura dell’upper e middle class che sta protetta in aree riservate: dalle gated communities a San Paolo alle zone residenziali si chiamano Alphaville, così ho pensato al riferimento ad Alphaville di Jean-Luc Godard. L’utopica finzione di Godard versus l’utopia economica di Alphaville.
LC: È curioso che un artista italiano che tu stimi e che ti stimava come Fabio Mauri, con il quale credo tu abbia alcune affinità, abbia fatto un’opera dedicata a quel film!
AM: Non è il solo, anche Peter D’Agostino, Chip Lord. Film come La jetée di Chris Marker o Stalker di Tarkovsky parlano di zone utopiche. Alphaville, el conjunto fechado, come spazio perfetto propone un’utopia, vivere liberi, vivere green, senza paura, però il paradosso è che vivono tra le mura, in complessi fortificati che ricordano le città medievali, centocinquanta volte più difficile di un aeroporto. L’installazione ha la forma di uno show room con pubblicità per l’acquisto di real estate e ospita il film Alphaville e Otros.
LC: Buona parte del tuo lavoro è dedicata all’analisi della coreografia gestuale della politica e delle sue rappresentazioni simboliche, all’evoluzione dell’immagine pubblicitaria della politica. Political Advertisement tra gli altri ha individuato in Richard Nixon l’origine di questa strategia. Hai detto che si tratta di una specificità americana. Come vedi questa evoluzione ora?
AM: In effetti Political Advertisement (1952-2012) rivela la relazione che c’è tra la pubblicità e la politica. Questo tipo di forma propagandistica nasce con Eisenhower, seguito poi dalle strategie di convinzione di Nixon. Più precisamente con l’incontro Nixon-Khrushchev. All’Expo di Mosca nel 1959 il Padiglione americano era dedicato all’American Way of Life. Charles e Ray Eames avevano disegnato questo padiglione che è stato il primo esempio di multimedia. In questo contesto, nella cucina della casa-prototipo delle aree suburbane andava in diretta la discussione tra Nixon e Khrushchev. Erano circondati da tutti gli elementi domestici, mentre in Russia non avevano niente1. Questo ha segnato la penetrazione internazionale dell’American Dream. Kennedy è stato sicuramente il presidente più carismatico, ma Nixon quello più mediatico. Dopo non si sono mostrate più le guerre nella stessa forma. Nixon è stato comunque il primo politico che ha usato i media in relazione al periodo della guerra fredda. Political Advertisement usa come materiali gli spot politici fatti alla televisione e pagati dai partiti e ne segue gli sviluppi. È un’analisi della documentazione dei Political Advertisement dal 1952 a oggi: Eisenhower, Nixon, Kennedy, Clinton, Mc Cain, Obama, Romney… della politica e di come la pubblicità ha trasformato il suo ruolo inizialmente d’informazione fino a trasformarsi in seduzione. È iniziato nel 1984 e ogni quattro anni si fa un nuovo editing e lo si presenta in un posto differente. Presentarlo prima delle elezioni è un lavoro time specific, è un gesto politico. Credo che Guernica sia un lavoro time specific. Il lavoro di Michael Moore 9/11 è stato un time specific.
LC: Nel 1952 la campagna elettorale di “Ike” Eisenhower, poi eletto nel gennaio del 1953, era stata diretta dal pubblicitario Rosser Reeves.
AM: Questo lavoro, che parla della relazione politica/pubblicità è stato presentato alla mostra “For President” alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino: è la versione che arriva al 2008.
LC: Di questa relazione i giornali sono stati un importante elemento.
AM: Quando viene presentato il lavoro non ci sono commenti. Io e Marshall Reese facciamo il montaggio. In generale credo sempre che il lavoro si definisca proprio nel montaggio.
LC: Lo stadio, erede dell’antica arena, è una tipologia architettonica catalizzatrice della liturgia dello spettacolo (sport, intrattenimento, politica). Come ha scritto Iris Dressler lo stadio è molto più di un’architettura perché “rappresenta sempre anche il contrario di quello che rappresenta”: sfera privata e sfera pubblica; controllo e imprevedibilità; spettacolo e violenza. In una mostruosa metamorfosi molti stadi si sono trasformati da luoghi di spettacolo in prigioni, d’altra parte lo stadio e la prigione sono fondati sullo stesso concetto del Panopticon. È un’architettura in sé mediatica. Tu sei stato forse il primo a metterlo a fuoco. Questo edificio a forte carica simbolica è ancora al centro del tuo lavoro?
AM: L’emblema dello stadio è il motto romano “panem et circenses”. Lo stadio è un container per avvenimenti di massa, organizza la massa, il pubblico. Accoglie lo spettacolo e lo spettatore, però lo manipola anche. Stadium ha un sottotitolo: Homaggio a la audiencia. Ho dedicato allo stadio diverse opere, ma all’origine di tutte c’è una grande installazione costituita da elementi architettonici e metaforici.
LC: Lavori ancora intorno al tema dell’audience in questo momento?
AM: Ora sto lavorando all’idea di protocollo asiatico. Penso ai rituali urbani, alle regole, alle convenzioni. Protocolli di come la gente si relaziona attraverso la traduzione culturale.