Le due installazioni complementari presentate nella personale “RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON” alle OGR offrono, per la prima volta in Italia, un’esperienza viscerale della pratica audiovisiva di Arthur Jafa, artista, cinematografo e regista pluripremiato, che insegue “la potenza, la bellezza e l’alienazione” della musica nera statunitense.
Bakabala (2022) consiste in un percorso che in questa sala, alta 13 metri e semi buia, sembra un oggetto relativamente piccolo e oscuro che appare solo quando la videoproiezione di Aghdra (2021) ne illumina le pareti esterne specchianti. Al suo interno si dipana una partitura serrata di immagini afferenti alla storia culturale nera degli Stati Uniti ed elementi scultorei nella forma di tubi e binari per movimentazioni che sembrano agire da spaziature di senso tra le immagini. I soggetti, sia trovati sia fabbricati dall’artista, vengono poi organizzati per associazioni non lineari che mi entusiasmano e raggelano allo stesso tempo. Fotografie di musicisti jazz e rock, corpi uccisi, mostri, pianeti, personaggi del cinema di fantascienza, e ancora genocidi, artisti, cantanti gospel e linciaggi da parte di suprematisti bianchi rivestono le pareti interamente e indipendentemente dalla loro risoluzione, trasformandosi in figure torreggianti, sinistre, spirituali e provenienti da un passato o futuro remoto. Con questo super conduttore narrativo- speculativo, che rimane situato all’interno di un consumismo culturale che intorpidisce i significati specifici, Jafa assume il ruolo di fan e di storico, intervenendo sulla memoria collettiva secondo un approccio che è fantastico e forense, esoterico e documentaristico.
In questo senso, il titolo della mostra, che alterna il cognome di Jafa a quello dei chitarristi Arthur Rhames, Pete Cosey e Ronny Drayton, continua l’impegno dell’artista nel traghettare all’interno delle arti visive la sua personale costruzione e ricostruzione di una genealogia di uomini afrodiscendenti che hanno trasceso i limiti della cultura dominante del loro tempo come espressione estetica e politica. Ipotizzo qui anche il desiderio di Jafa di ri-posizionarsi nel solco di una storia identitaria da affermare e proteggere a fronte delle cancellature, appropriazioni e sbiancamenti adoperati dall’egemonia culturale razzista anti-nero.
Aghdra è un’animazione in CGI della durata di 85 minuti, una scelta metodologica inedita e insolita per Jafa, che compie il gesto inverso di Bakabala e di lavori video precedenti come APEX (2013) o Love is The Message, the Message is Death (2016), abbandonando la composizione quantica di associazioni visivo-affettive per creare un’immagine aniconica che nelle sue pieghe astratte contiene l’esperienza della nerezza e della diaspora. In questo scenario, che Jafa costruisce inventando leggi meccaniche, fisiche e ottiche sovversive della realtà che percepiamo, ci sono un corpo celeste luminoso fisso – che nell’alternanza tra giorno e notte non raggiunge lo Zenit – e un corpo d’acqua a perdita d’occhio, scuro e denso, in costante movimento e riavvolgimento su se stesso. Vi galleggiano miriadi di frammenti di materia che coesistono, si sommergono a vicenda, si alzano minacciosi in onde soverchianti che arrivano a coprire interamente lo schermo e quindi l’unica fonte di luce della stanza dove mi trovo con effetti destabilizzanti. Il terzo elemento, che pervade tutta la mostra facendo vibrare le pareti di Bakabala insieme alla mia cassa toracica, è un rumore bianco che si alterna a canzoni d’amore Pop,R&B e Soul afroamericano degli anni Sessanta e Settanta manipolate dall’artista in eco ruggenti e struggenti. Aghdra non ha una lettura univoca ma rielabora, per sublimazione, anche l’orrore e il trauma intergenerazionale dell’esperienza del passaggio di mezzo, il tratto atlantico compiuto dalle navi che dall’Africa trasportavano persone rese schiave (cioè materia) al continente americano, creando uno spazio di contemplazione afrofuturista sulla specie umana, tra naufragio e sopravvivenza.
“RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON” è un evento che nel tentativo caparbio di affermare e rendere percepibile l’esperienza psico-somatica della nerezza fa emergere il doppiopesismo che la classe dominante bianca — statunitense, italiana, e non solo — applica sulla comunità nera in senso esteso, tra estetica e politica, tra ammirazione per la produzione culturale collettiva e stereotipizzazione mostruosa degli individui.