Benito Jacovitti è stato, forse, il più grande disegnatore di fumetti umoristici italiano: per la prolificità ineguagliata, per la fama, per la personale sintesi figurativa e linguistica – un’arte, si direbbe. Lui, che piuttosto si definiva un “artigiano umorista”, quando il fumetto era principalmente considerato solo una forma di intrattenimento nella società della comunicazione di massa.
Dall’epoca di Jacovitti, l’Italia è cambiata, la comunicazione e l’intrattenimento sono cambiati, il fumetto è cambiato; e soprattutto è cambiata l’idea che si ha del fumetto. Fino a una trentina di anni fa i fumetti venivano letti da ragazzi e ragazze (ragazzi, soprattutto) sotto i banchi di scuola, requisiti se scoperti, visti come distrazione da più serie ed edificanti letture. Oggi i giovani lettori “spontanei” di fumetti (contando anche i lettori di manga) sono veramente pochissimi – altre sono le forme di intrattenimento. Invece è dalle cattedre, o piattaforme affini, che in questi anni si prova a proporre e rivalutare “l’arte sequenziale”, che nel frattempo è stata perlopiù vestita commercialmente con il nome di graphic novel e che i media generalisti hanno decretato adulta. A venire requisiti, sono piuttosto gli smartphones.
Jacovitti, comunque, riusciva a stare sopra i banchi di scuola anche in tempi non sospetti, camuffando i suoi fumetti nel diffusissimo Diario Vitt (chiamato così non in onore dell’autore, ma perché era il diario de Il Vittorioso della casa editrice cattolica A.V.E.), unico diario scolastico fino agli anni Settanta. È soprattutto attraverso il Diario Vitt che diverse generazioni di giovani italici hanno conosciuto e amato Jac.
Anche se già in tenera età disegnava sulle lastre di pietra delle strade di Termoli (CB), dov’era nato nel 1923, l’esordio su carta stampata per Benito Franco Jacovitti avvenne nel 1939 quando, poco più che quindicenne, iniziò a collaborare con il settimanale satirico fiorentino Il Brivido, mentre frequentava ancora il liceo artistico. È in quegli anni che fece suo il soprannome “lisca di pesce”, affibbiatogli per statura e magrezza, e che utilizzerà come firma (una lisca rossa) in fondo a quasi tutte le tavole nella sua sessantennale carriera. Sul periodico per ragazzi Il Vittorioso, per le cui pagine venne chiamato a lavorare lo stesso anno, inventò i suoi primi personaggi di successo: ovvero, il trio di avventurosi amici Pippo, Pertica e Palla (i “tre P”), protagonisti di decine di storie bellissime, con tratti se vogliamo fanta-neo-realisti, di cui purtroppo sono andati persi tutti gli originali.
Trasferitosi a Roma nel dopoguerra, dove collaborò anche con Fellini, Metz e Steno in alcuni giornali di satira, dalla seconda metà degli anni Cinquanta, Jacovitti iniziò a lavorare al supplemento per ragazzi del neonato quotidiano Il Giorno: Il Giorno dei Ragazzi. È su queste pagine che comparve per la prima volta il suo personaggio più conosciuto: Cocco Bill, l’invincibile e temuto cowboy girovago e camomilla-dipendente, rigorosamente accompagnato dal cavallo Trottalemme. Ma, sulle pagine de Il Giorno, una volta alla settimana, venivano pubblicate anche le celeberrime “panoramiche” di Jacovitti, dette anche “paginoni” o “piazze”: illustrazioni di folle brulicanti, già presenti negli esordi dell’autore e che Jacovitti frequenterà fino alla fine. È soprattutto attraverso queste rappresentazioni della moltitudine che Jac è riuscito a raccontare, come nessun altro, il nostro paese – nei suoi costumi, vizi e debolezze – e dove ha saputo esprimere al meglio la sua folle e surreale comicità, in cui dimensione figurativa e dimensione verbale si confondono e compenetrano continuamente. Parole e disegni nascevano infatti dal suo pennino nello stesso momento, in un flusso ininterrotto, ritmato dai piccoli segni che formano una controllata e antigestuale morbida linea. Nel trambusto di queste rappresentazioni si riesce, infatti, a riconoscere, nella struttura generale, un ordine compositivo spesso costruito su diagonali, ma anche in forme più complesse. È in quest’abilità di dare una forma al caos, che si riflette egregiamente quell’equilibrio tra improvvisazione e rigore compositivo che rende unico il processo creativo di Jacovitti.
L’improvvisazione, soprattutto nel suo stile compiuto, appartiene anche alle storie a fumetti dell’autore: a partire da uno titolo e da canovacci collaudati, vignetta per vignetta, tavola dopo tavola, e con poche linee di matita per gli ingombri – praticamente direttamente ad inchiostro – Jacovitti metteva in moto il suo teatrino a pieno regime, senza nessun limite all’incoerenza, con il solo dovere di divertirsi e divertire il lettore, deliziarlo e anche deriderlo, con trovate sempre nuove, sempre uguali. E quando capiva di non poter fermare questo fantastico motore, per non raffreddarlo, mentre pensava alla vignetta successiva, riempiva tutti gli spazi disponibili di un campionario di oggetti diventati iconici: da piedi e dita che spuntano dal terreno ai vermi parlanti, dalle ossa ai pettini, fino ai famosissimi e iconici salami. L’abilità artigianale del disegno di Jacovitti, quando correzioni o post produzioni digitali erano ancora fantascienza, è ciò che ai nostri occhi sconvolge maggiormente: visti dal vero gli originali sono sbalorditivi e paiono l’output di quello che il fumettista Paolo Bacilieri ha definito un “plotter umano”.
Jacovitti ha attraversato con disinvoltura tutti i generi narrativi classici, parodiandoli, stravolgendoli e piegandoli al suo genio comico e surreale, codificando nuovi paradigmi che si sono fissati nell’immaginario di generazioni: dal già citato spaghetti western ante litteram di Cocco Bill, al cappa e spada californiano di Zorry Kid – dinamica e frizzante versione del famoso spadaccino mascherato; dalla fantascienza di alcune avventure spaziali di Pippo Pertica e Palla, di Microciccio Spaccavento e di Gionni Galassia, al caustico hard boiled per adulti di Gionni Peppe/Gionni Lupara, pubblicato su Linus nel 1973 e causa di diversi malumori tra le file dei lettori e della redazione.
Sì, perché Jacovitti non riusciva a non prendersi gioco di tutto e tutti, e nella sua carriera è spesso stato invitato all’autocensura, cosa che non gli piaceva affatto. Così, per esempio, per disegnare il suo kamasutra – il Kamasultra (Maga Publicitas, Milano 1977) – ha dovuto cessare la collaborazione con la cattolica A.V.E.; e in altre occasioni si sono presentati attriti con gli editori di turno. E non solo con gli editori, visto che ricevette anche minacce dirette per le sue stoccate canzonatorie agli estremismi politici di tutte le risme.
Abbandonata l’A.V.E., Jacovitti disegnò per Il Corriere dei Piccoli e per Il Corriere dei Ragazzi, continuando a inventare personaggi e a riproporre i suoi più conosciuti e ineguagliabili. Dalla fine degli anni Settanta iniziò la collaborazione anche con Il Giornalino delle Edizioni San Paolo.
Immergersi oggi nelle storie e nelle panoramiche di Jacovitti può risultare faticoso e frastornante. Non è possibile leggerlo senza entrare dentro alla saturazione di segni delle sue tavole, senza provare una sensazione quasi tattile. Nel suo stile compiuto tutto pare fatto della stessa sostanza gommosa – anche l’aria, solida di linee cinetiche che tracciano le traiettorie impossibili dei corpi dei suoi personaggi, quasi marionette smontabili e rimontabili in decine di combinazioni.
E non è un caso che con Pinocchio, il burattino per antonomasia, Jacovitti si sia misurato ben tre volte. Una prima tra il 1942 e il 1943, in alcune illustrazioni per La Scuola Editrice. Poi su Il Vittorioso, tra il 1946 e il 1947, per una storia a fumetti a puntate, con i testi però in didascalia a causa del divieto fascista di utilizzare i balloon, considerati antipedagogici e troppo “americani”. In questa versione, oggi praticamente introvabile, c’è ancora uno Jacovitti sensibile e lirico, chiaroscurale, diverso dal disegnatore del Pinocchio realizzato per un volume delle edizioni A.V.E., nel 1964 – sicuramente la versione più conosciuta.
Dalla guerra al dopoguerra, dal boom economico alla contestazione, Jacovitti è stato un importante testimone della società italiana, e rileggere oggi la sua produzione può essere un’interessante porta di accesso per conoscere o riconoscere il recente passato di questo paese. Come Andrea Pazienza (che ne ha esplicitamente ammesso l’influenza), Jacovitti è stato un fumettista peculiarmente italiano, difficile da tradurre e da esportare. Per quello che raccontano, per come lo raccontano e soprattutto per l’invenzione fanta-meta-dialettale di cui è costituita la dimensione verbale dei loro fumetti, entrambi questi autori sono intrinsecamente legati all’Italia.
Oltre alle numerose pubblicazioni reperibili in commercio oggi, nell’anno passato ci sono state almeno due occasioni di riscoperta di Jacovitti: un convegno tenutosi a settembre a Spoleto, intitolato “I neuroni di Jac e co.”, e la mostra “Il teatrino perpetuo” all’interno di BilBOlbul – Festival Internazionale di Fumetto, tenutasi a Bologna tra novembre 2017 e gennaio 2018. Quest’ultima iniziativa è stata accompagnata da una pubblicazione critica a cura di Hamelin Associazione Culturale: Jacovitti. Il teatrino perpetuo (Coconino Press/Fandango, Bologna 2017).[i]
Se molti autori di fumetti sono cresciuti con i disegni e le storie di Jacovitti riconoscendo l’influenza e l’amore per questo incredibile disegnatore di “pupi”, è vero che gli artisti più giovani, che poco lo conoscono, potrebbero scoprirlo con un occhio e un cuore nuovi, e trarne sicuri stimoli.