Cy Twombly: (silenzio) “La gente non vuole più fare il pubblico, né l’allievo, vuole entrare nella cosa, ossia sente che c’è già dentro.”
Documenta 13 si colloca in un momento di crisi generalizzata che non risparmia il ruolo e la funzione dell’arte. Ma quale ruolo e quale funzione per l’arte? L’arte ha la funzione di avere una funzione: se compro un quadro per arredare il mio salotto, e quel quadro soddisfa la sua funzione, quel quadro ha valore. Allo stesso tempo potrebbero esserci dei quadri che arredano meglio il mio salotto, o dei quadri che mi fanno capire che arredare il salotto non è così importante, o che nell’arredarlo sono più importanti altri elementi. Ogni progetto, sia esso una grande mostra o una singola opera, può essere di valore quando è consapevole della propria funzione. La discarica che Lara Favaretto ha proposto per Documenta avrà sicuramente valore per un’azienda che ricicla il ferro, ma posta in una rassegna di arte contemporanea nel 2012 sembra voler risolvere le cose con un certo nichilismo fine a se stesso. Come a voler dire: “ecco quello che rimane di una civiltà in declino”. Non mi sembra che una certa civiltà sia in declino, anzi cerca ancora di imporsi e nessuno è in grado di proporre e organizzare alternative. La discarica sembra un commento fin troppo facile e prevedibile, mentre i rimandi a un certo poverismo sono sintomatici di una generazione in crisi. Una generazione che si lamenta ma che non sa proporre e imporre vie alternative. L’arte può diventare un momento prezioso per aumentare il grado di coscienza e consapevolezza verso quello che ci circonda. Un momento forse più importante della politica che non si può permettere tempi di riflessione e cambi repentini. Pochi giorni prima di Documenta ha aperto la Biennale di Berlino: la rassegna si prefigge l’obbiettivo di abbattere i muri che spesso separano l’arte contemporanea dai problemi reali, e cercare di suggerire un nuovo ordine che possa favorire una soluzione dello stato di crisi. Se fuori casa sentiamo rumori, apriamo la porta? Abbattiamo il muro? Non c’è il rischio che i problemi esterni possano contaminare lo spazio-opportunità dell’arte? Se Berlino si vuole attivare “alla Beuys”, rischiando di partecipare ai problemi che vorrebbe risolvere, Documenta appare come una riflessione eccessivamente estesa, dove la quantità e la vastità della rassegna rischiano di soffocare alcuni nodi importanti. “Berlino” è un padre di famiglia dai buoni propositi ma irruente che corre ad aprire la porta; “Documenta” vorrebbe essere un padre di famiglia più riflessivo che cerca di avere un quadro preciso della situazione. Forse si tratta di unire in modo virtuoso questi due atteggiamenti con la consapevolezza che un ruolo chiave può essere giocato dallo spettatore come cittadino attento e attivo. Lo spettatore sembra invece abbandonato o invitato a un attivismo senza metodo: invaso da immaginari accattivanti e citazioni gratuite come fosse in un luna park; armato di un testo-mappa da seguire per individuare le “opere” come in una caccia al tesoro; tenuto fuori o coinvolto in modo incontrollato attraverso la retorica del “fa quello che vuoi”. La cosa migliore che può fare l’arte è suggerire un metodo, una modalità che dallo spazio dell’arte possa essere trasferibile a ogni ambito. Davanti allo spettatore ci sono troppe cose, la rappresentazione è satura: bisogna arrivare allo spettatore da dietro o dal fianco, e questo forse lo può fare meglio un altro spettatore piuttosto che l’ennesimo artista.