In una scena memorabile di The Square (2017) di Ruben Östlund, ci viene presentata una situazione familiare, legata al jet-set che ruota intorno all’arte contemporanea. Durante una cena di gala ambientata all’interno di un museo, con un gruppo selezionato di persone, gli astanti vengono intrattenuti da un’esibizione. L’attore si muove in modo animalesco, ma i partecipanti non sembrano spaventati, perché consapevoli di trovarsi in uno spazio sicuro, dove qualunque cosa accadrà li “toccherà”, ma solo emotivamente. Probabilmente succederà qualcosa di forte, aggiungerà un brivido all’evento esclusivo, di cui sicuramente si parlerà durante feste future. Ma quando la performance inizia, la tensione aumenta, e l’attore si muove in modo talmente aggressivo da invadere fisicamente lo spazio degli ospiti ai tavoli. Gli invitati rimangono colpiti dalle sue gesta, tanto da innervosirsi. Seppur riluttanti, comprendono che è meglio stare al gioco, quindi nessuno per primo vuole farsi da parte, per non rovinare l’effetto finale. Tuttavia, il brivido sale e sembra davvero spaventare gli animi. Risate nervose, gli ospiti si guardano tra loro un po’ disorientati e forse anche un po’ angosciati, fino a quando il tutto degenera in una vera e propria violenza. Una violenza verbale e corporea. C’è chi urla, chi viene preso dal panico, chi invaso da una sensazione di imminente pericolo. A questo punto, qualcuno chiama la sicurezza, non si tratta più di una performance artistica, ma di vita vera con delle sfumature quasi grottesche, non più adatte a una cena di gala.
Le conseguenze psicologiche che l’avvento del COVID-19 ha portato nella vita quotidiana, saranno devastanti. Nessuno sarà davvero più sé stesso, né sicuro del suo tempo o di come organizzarlo. Non si pensa più alle cene di gala, alle esibizioni artistiche, è passata quella spensieratezza e quella superficialità che animava gli eventi dell’arte. L’1% della popolazione è fuggita repentinamente dalle grandi città per isolarsi nelle case di vacanze. La massa ha realmente fatto irruzione nei supermercati, depredando gli scaffali, per accumulare scorte di cibo. Pensando soltanto a loro stessi e senza preoccuparsi minimamente degli altri. Abbiamo visto miliardari postare foto scattate nei loro yacht, navigando mari tropicali, lontano da quella che sembrava la fine del mondo. Tutto questo è un paradosso, quelle immagini sembravano quasi consigli per rimanere in casa in auto isolamento, mentre loro proseguivano con la propria vita privilegiata. La pandemia globale, ha reso tutti uguali. Dopo la caduta del muro di Berlino, il primo serio dibattito globale è sul come e sul perché, il neoliberismo ci ha deluso, e su quale alternative ci aspettano. Il potere è spesso legato a una non responsabilità: se c’è un naufragio, il comandante usa il suo status per abbandonare per primo la nave. E che, gli spazi sicuri di pochi felici siano garantiti, e alla fine pagati dal rischio personale e dal sacrificio dei più vulnerabili ed emarginati. Questo non è solo ciò che accade nel mondo esterno. Lo spazio sicuro dell’istituzione artistica stessa, non è altrettanto sicuro per tutti coloro che vi lavorano, come dimostrato in modo eloquente dai massicci licenziamenti di professionisti e lavoratori dei musei, licenziati nonostante le enormi dotazioni finanziarie di certe istituzioni.
Questo apre un dilemma: l’arte può davvero continuare a ragionare in termini di spazi sicuri in tempi come questi? Può permettersi di soffermarsi su questioni di ingiustizia sociale, violenza e abusi senza assumersi alcun impegno o responsabilità nei confronti delle vittime? Le istituzioni artistiche possono mantenere la loro credibilità sociale, quando applicano meccanicamente ai propri dipendenti la stessa brutale logica neoliberale che attaccano abitualmente, quando si tratta delle pratiche, e delle scelte del mondo politico o aziendale? La rilevanza sociale e la credibilità delle istituzioni d’arte contemporanea oggi, alla fine dipendono dalla loro capacità di trasformarsi da spazi sicuri per le minoranze privilegiate in spazi inclusivi. Ma cosa significa in pratica? Ad esempio, significa fuggire da quella che si potrebbe chiamare la trappola della filantropia. In molti ambienti, il patrocinio artistico è una forma squisita di filantropia che paga bene in termini di promozione dell’immagine sociale, gestione fiscale esperta e sofisticate attività di lobby. Prima della crisi, la competizione tra i principali musei di arte contemporanea di tutto il mondo, sembrava sempre più una corsa agli armamenti globali, dove garantire le ultime e più grandi produzioni dalle istituzioni dai nomi “blue-chip”, ed era l’unico modo per rimanere all’avanguardia. In questo contesto, cadere nella trappola della filantropia non è più un’opzione, è una necessità se si vuole rimanere in gara. La conseguenza è che qualsiasi tipo di critica sociale, presa da una tale posizione di compiacimento nei confronti di grandi donatori, sembra del tutto priva di fondamento, apre la strada a innumerevoli conflitti di interesse e rafforza la convinzione che, alla fine, l’arte e le sue istituzioni sono sostanzialmente il correlativo oggettivo del privilegio. Spostarsi verso l’inclusione non significa invitare più persone nel club per una rapida occhiata, per offrire loro un’opportunità unica di illuminazione. Significa piuttosto cambiare la gerarchia delle priorità e mettere in primo piano la rilevanza sociale e la responsabilità.
In che modo l’arte può affrontare il fatto che alcuni tra coloro che traggono il massimo vantaggio dall’ingiustizia sociale, sono anche tra i suoi principali sostenitori, e ciò che ruota attorno all’arte globale si rivelerebbe finalizzato alla decorazione interna di qualche villa o proprietà di lusso? Pensate per esempio alla frode fiscale e dei costi umani che comporta in termini di mancanza di servizi base, morti premature ed esclusione sociale ed economica in qualsiasi parte del mondo. Questo è un dilemma che non può essere ignorato. L’arte non può essere un agente credibile della critica istituzionale se usa la propria sfera sociale come scudo: espone le contraddizioni degli altri e rifiuta di prendere sul serio la propria.
Siamo nel mezzo dell’esibizione durante la cena di gala e l’attore non si sta comportando come previsto. Non si attiene alla sceneggiatura. O forse la sceneggiatura che aveva in mente era semplicemente un’altra fin dall’inizio. Dovremmo chiamare la sicurezza o dovremmo iniziare a fare la nostra parte? Pensa attentamente. Potrebbe non esserci una seconda possibilità.