Sin dalle sue origini, a partire dagli anni Dieci del Novecento, il cinema sperimentale ha sviluppato una vastissima grammatica visiva attraverso cui articolare il rapporto tra finzione e realtà, riflettendo principalmente sulle potenzialità espressive e narrative del montaggio e degli effetti speciali. Parallelamente, l’immagine in movimento — aggiornamento della fotografia documentaria e di reportage — è diventata il principale strumento di archiviazione di memoria. La possibilità di costruire e manipolare un messaggio attraverso il cinema è stata ed è alla base delle riflessioni sul potere sociale, politico ed economico della produzione cinematografica.
Dall’inizio degli anni 2000, l’opera di Clemens von Wedermeyer si inserisce nel solco di queste tematiche. Una caratteristica del suo lavoro è l’utilizzo della cultura cinematografica — fatta di storie, documenti e tecniche — come origine di complessi percorsi espositivi attraverso cui chiede allo spettatore di posizionarsi rispetto a ciò che guarda. I poli dialettici attivi nella sua opera sono da una parte il passato storico e il presente, e dall’altra la finzione cinematografica e la realtà.
In questo articolo — necessariamente schematico — saranno presi in considerazione due lavori: The Cast e Fourth Wall. Entrambi infatti contengono gli elementi strutturali caratteristici del linguaggio dell’artista: il plot, ovvero lo sviluppo di un intreccio narrativo; l’uso di documenti storici e di finzione; l’utilizzo di alcune tecniche cinematografiche che intervengono sul tempo del racconto, trasformando la mostra in un dispositivo catartico rispetto al ruolo dello spettatore passivo.
Con The Cast, recentemente in mostra al MAXXI di Roma, Wedermeyer riflette sul tema della disoccupazione e della crisi in ambito culturale.
PLOT: La mostra racconta una vicenda realmente accaduta: nel 1958, durante le riprese del film Ben Hur negli studi di Cinecittà a Roma, l’Associazione Cristiana Cinematografica Italiana si fece promotrice della ricerca di possibili comparse da utilizzare nel film in questione. A fronte di un versamento di 100 lire, le persone ingaggiate avevano la garanzia di essere assunte. Il giorno di inizio lavori però delle 10.000 persone coinvolte solamente 1500 furono realmente impiegate. L’indignazione per la truffa portò a episodi di rabbia e violenza da parte di 5000 presenti che tentarono di forzare i cancelli degli studios romani, episodio poi seguito da scontri con la polizia. Il fatto è raccontato in una delle quattro parti della mostra, il video Procession, che ne costituisce il momento più esplicitamente narrativo. L’episodio del 1958, è collegato metaforicamente ed effettivamente all’attuale situazione dell’economia culturale in Italia. Per girare le scene, Wedermeyer ha collaborato infatti con un gruppo di attivisti e attori che facevano parte del Teatro Valle Occupato: una realtà romana che, dal 2011, ha occupato un teatro storico della capitale in via di chiusura e si è impadronita della sua gestione, con l’intenzione di restituire alla città uno spazio attivo e costruttivo fuori dai meccanismi clientelari di altri circuiti culturali. Il racconto alterna i fatti con le riflessioni degli attori che, nell’interpretare i ruoli, si trovano a riflettere sulla propria condizione.
DOCUMENTI: la mostra apre con il video Afterimage: una proiezione semicircolare in 3D con effetto point cloud dove viene ripreso in soggettiva il laboratorio della famiglia De Angelis: storici artigiani di Cinecittà, i De Angelis hanno realizzato elementi scenici dei più importanti film girati a Roma e hanno vissuto tutto lo sviluppo del mercato cinematografico, dalla nascita al suo declino attuale. Il loro laboratorio è oggi un deposito di storie raccontate da statue, frammenti di arredi, strutture e scritte che condividono lo stesso spazio. Il forte richiamo alla mitologia contemporanea creata dal cinema contrasta con la sensazione di abbandono del materiale, oggi quasi dimenticato. Altri documenti, tra articoli di giornale, fotografie e un modellino di Cinecittà utilizzato per girare alcune parti del video, arricchiscono il video Procession.
DISPOSITIVI: La videoinstallazione The Beginning. Living Figures Dying — che segue Afterimage — è composta da una successione di 10 schermi sui quali vengono proiettati brani di film dove si vedono momenti di creazione, di adorazione o di distruzione di statue; ogni schermo proietta il contenuto del precedente con un piccolo scarto temporale. Le statue sono interpretate come simboli attivi di una storia e gli attori come strumenti di racconto. La contemporaneità della visione dei frammenti narrativi dichiara apertamente la finzione cinematografica. In Procession, l’uso del fast forward e della stop motion stravolgono il tempo del racconto e creano un ponte immediato tra la memoria del passato e il presente degli attori.
Come succede sempre nei lavori di Wedermeyer, le citazioni sono molteplici. In questo episodio della sua ricerca, un film importante di riferimento è la Verifica Incerta, saggio sul montaggio e sulle sue possibilità narrative, nate dalla capacità del cinema di “archiviare” immagini. Verifica Incerta, del 1964, fu realizzato dal cineasta indipendente Alberto Grifi in collaborazione con il pittore Gianfranco Baruchello: attraverso il montaggio di scarti di pellicole di film americani acquistati prima che andassero al macero, Grifi e Baruchello creano una nuova storia in cui si incontrano personaggi di film differenti. Mentre Grifi archiviava gruppi tematici di frame e montava il racconto, Baruchello immaginava le ipotetiche conversazioni che sarebbero potute avvenire tra i vari personaggi. Durante la prima proiezione del lavoro l’idea degli autori era di smembrare il film e di distribuire i vari frammenti di pellicola al pubblico. La volontà di dissolvere la finzione nella realtà è recepita da Wedermeyer, che interroga spesso il ruolo attivo dello spettatore. In The Cast questo interrogativo è interpretato attraverso il mito di Deucalione e Pirra: Remains: The Myth of Deucalion and Pyrra presenta due calchi di statue dei due personaggi nell’atto di lanciare delle pietre dietro di loro, nella speranza di rigenerare il mondo: rimasti gli unici abitanti della terra, i due coniugi anziani e senza figli chiedono a Zeus come poterla ripopolare; Zeus suggerisce loro l’azione in cui sono ritratti, nella quale le pietre vengono trasformate in uomini. Questo episodio della mostra — l’ultimo per successione espositiva — costituisce da una parte un richiamo alla ripetizione degli archetipi, dall’altra alla possibile apertura verso una futura rigenerazione, una via d’uscita dal loop in cui i personaggi precedentemente raccontati sembrano intrappolati.
All’interno della cultura cinematografica, il documentario assume l’importante funzione di registrare fatti ed eventi realmente accaduti. In origine il suo contenuto — principalmente didattico — mostrava gente e luoghi lontani, come per tracciare un atlante geo-antropologico del mondo intero. Ma da che punto di vista? La presa diretta della realtà e la sua diffusione attraverso il cinema hanno da subito aperto molti interrogativi sulla reale oggettività del mezzo. Già negli anni Trenta del Novecento John Grierson sostenne l’imprescindibilità di un filtro soggettivo nella realizzazione di un documentario. La costruzione della memoria storica tramite i media, è poi stata oggetto di numerosi studi sull’uso del cinema, evidenziandone la capacità di orientare opinioni e creare consenso tramite la costruzione di storie e associazioni visive. Negli anni Ottanta, sulla scia delle ricerche dei decenni precedenti, il teorico belga Paul Willemen si interroga sul “quarto sguardo”: derivazione della quarta parete teorizzata nel 1758 da Diderot come muro immaginario che separa gli attori teatrali dal pubblico, per portarli a dimenticare di essere osservati e avere una recitazione più realistica. Il lavoro The Fourth Wall di Wedermeyer è una tappa importante nell’analisi del rapporto finzione/realtà perché, oltre a incrociare e verificare i dati, interroga apertamente l’identità e la posizione dello spettatore di fronte a ciò che guarda. La mostra, presentata nel 2009 al Barbican di Londra, comprende vari documenti e film.
PLOT: L’opera si costruisce intorno alla straordinaria scoperta nel 1971 di una tribù indigena delle Filippine, i Tasaday, mai venuta fino ad allora in contatto con altre società. Questa scoperta generò l’interesse mondiale di ricercatori e antropologi, e produsse una quantità enorme di pubblicazioni, filmati e reportage. Dopo circa 15 anni, durante i quali la tribù fu volontariamente tenuta lontana dai media, una spedizione non autorizzata scoprì che le caverne in cui vivevano i Tasaday erano vuote e che in realtà i presunti indigeni facevano parte di altre tribù ed erano stati pagati dal regime di Ferdinand Marcos per orchestrare questa messinscena e distogliere l’attenzione dal suo operato politico. Wedermeyer ha realizzato alcuni film su questa storia, uno dei quali, The Gentle Ones, elabora il tema dell’isolamento collegando quello della tribù filippina con quello creato dagli attori per lavorare ai personaggi chiamati a interpretare. All’interno dell’auditorium del Barbican, gli attori che nel film interpretano i Tasaday convivono con il pubblico, il reale pubblico del museo, chiamato a entrare in contatto con loro durante le riprese. Questo contatto rappresenta la presunta scoperta dei Tasaday da parte dei ricercatori nel 1971 e allo stesso tempo la caduta della quarta parete che divide pubblico e scena. Per approfondire il tema dell’isolamento, un altro lavoro dal titolo Interview presenta l’intervista a un etnografo e attore. In questo video, lo studioso espone la problematicità dell’incontro tra il ricercatore e l’indigeno, e il rapporto di sfruttamento verso quest’ultimo che quasi sempre ne deriva. L’etnografo quindi ipotizza l’isolamento come unica possibilità per contenere la morbosità del ricercatore e della sua società di provenienza.
DOCUMENTI: Il video Found Footage raccoglie filmati di varia origine che documentano la scoperta dei Tasaday. Questo materiale è stato montato in modo da svelarne le contraddizioni e porre in questione il concetto di oggettività della macchina da presa, che sembra continuamente smentirsi. Ancora, in alcune vetrine sono esposte riviste con immagini e articoli che parlano della scoperta. Il contrasto tra lo statuto di documenti — realmente concepiti come tali al momento della loro produzione e in seguito screditati e trasformati in fiction — e lo statuto di fotogramma di una finzione di questo materiale richiede un intervento interpretativo allo spettatore, il cui sguardo diventa parte attiva del lavoro. In questo senso, Paul Willemen promuoveva un approccio comparativo, anti-specialistico e anti-universale dello spettatore: “è esattamente attraverso l’attivazione delle frizioni tra il mondo da cui e a cui un autore parla, e il mondo in cui operano gli schemi di riferimento del lettore che le differenze possono diventare intellettualmente produttive”.
DISPOSITIVI: per dare un’immagine dell’assoggettamento dello spettatore al racconto, Wedermeyer realizza il video Against Death. In questo video, un esploratore racconta a un amico antropologo — lo stesso di Interview — di aver partecipato a dei riti tribali che gli hanno dato il dono dell’immortalità. Per convincere l’amico scettico, l’esploratore si taglia la gola, sembra morire ma poi si rianima, e il racconto riprende. Il video è proiettato in loop per creare una dilatazione del tempo all’interno della quale si genera la ripetizione. Ed è proprio attraverso la ripetizione che si offre allo spettatore la possibilità di costruire il senso dell’opera. La dimensione installativa e la molteplicità di elementi utilizzati dall’artista rendono la sua opera estremamente articolata dal punto di vista logistico, al punto che, nella costruzione dei suoi lavori, l’elemento spaziale ed espositivo assume la dimensione del qui e ora, impossibile da riprodurre altrimenti. Anche questo aspetto rientra nel cortocircuito simbolico tra memoria storica, realtà e finzione che Wedermeyer chiede al suo pubblico di decifrare, considerando la cultura uno strumento di smascheramento della finzione a cui sembreremmo sottoposti.