“Io credo che la scultura sia quella cosa che ti rifiuta la finzione”, continuava a ripetere Luciano Fabro. Dall’altra parte della stanza, sotto lo sguardo vigile di Jole de Sanna, Antonio Trotta e Hidetoshi Nagasawa confermavano l’ipotesi dell’autore de L’Italia rovesciata: “La scultura è realtà, coincide, tocco e non è pelle […] è lì presente, è come un essere presente con i suoi sensi”; “La scultura non deve avere questa immaginazione oltre sé stessa”1. Forse si potrebbe partire da qui per parlare del lavoro di Costanza Candeloro, da questa conversazione avvenuta una sera del 1976 a margine di una mostra dimenticata, curata proprio da Jole de Sanna: “Aptico. Il senso della scultura”. Mi piace immaginare che – per qualche strano cortocircuito spazio-temporale – quella sera di quarantasei anni fa Costanza fosse in quella stanza di Corso Garibaldi 89 assieme a Fabro, Nagasawa e Trotta, e con la faccia contrariata, visibilmente in disaccordo con i venerabili maestri, esprimesse le ragioni di una scultura “finzionale”.
Il lavoro di Costanza Candeloro muove quasi sempre da un processo di elaborazione o appropriazione di testi, immagini, forme, che l’artista approccia in maniera disorganica e frammentaria. Attingendo liberamente a questo spazio di immaginazione, Candeloro rimette in gioco motivi letterari e cinematografici che, all’interno delle sue opere, vengono radicalmente riformulati, riscritti, ripensati. In alcuni casi, questo “materiale” di partenza viene sovrascritto ad altre storie, a immagini e a racconti, che finiscono per raddoppiare le operazioni crossmediali dell’artista aprendole ad altre possibili contaminazioni. In altri casi, invece, gli scenari finzionali impiegati da Candeloro si incrociano a riferimenti e a memorie personali, a vicende che riguardano la sua città natale, alle letture che hanno influenzato la sua infanzia e la sua adolescenza.
Questo transito tra media e linguaggi diversi dà forma a una “plasticità metaletteraria”, come la definisce l’artista, che se da una parte sembra portarsi dietro le tracce delle molteplici narrazioni che l’hanno generata, dall’altra diventa un dispositivo d’investigazione capace di decostruire pregiudizi e costrutti di genere.
Questa precisa attitudine progettuale si vede all’opera nell’ultima personale dell’artista: “MY SKIN-CARE, MY STRENGTH. Beauty Show” (2022). Allestita negli spazi della project room di Fondazione ICA a Milano, la mostra include una serie di sculture e opere a parete che derivano dal video Kitten HD & Kitten Lo-fi (2022). In questo breve girato, presentato qualche mese prima sulla piattaforma digitale della stessa istituzione milanese, Candeloro mostra una serie di riprese di gattini in altissima e in bassissima qualità che si susseguono con un ritmo compassato, accompagnate da una colonna sonora che ci proietta in un’atmosfera dilatata, sognante. Il continuo passaggio dall’alta alla bassa definizione contribuisce a tener viva la nostra attenzione, mentre i primissimi piani dei felini – che solitamente popolano i feed di Instagram, Facebook e TikTok – si alternano a frasi che sembrano evocare una serie di ricordi malinconici: “The end of the season showed me how the garden become sinister at night”; “I run away to the countryside and when I went back his usual gaze was waiting for me”; “There are some children so good at playing at who is laughing last that they end up feeling sad forever”.
Kitten HD & Kitten Lo-fi rappresenta una sorta di script, di drammaturgia: è lo scenario sfocato dal quale emergono le opere presenti in “MY SKIN-CARE, MY STRENGTH. Beauty Show”. Su tutti i lavori presenti in mostra, infatti, l’artista ha stampato alcuni still da video dei gattini-star che, tramite una particolare tecnica calcografica, sono stati impressi sulla superficie delle sculture. Su quelle installate a parete, ad esempio, si riconoscono gli occhi e il naso dei piccoli felini, mentre su quelle disposte nello spazio si nota il pelo nero dei loro mantelli. Realizzate in ceramica e successivamente sottoposte al processo di stampa, le sculture sono state modellate seguendo alcuni video tutorial reperibili online dedicati alla skin care.
Il progetto espositivo di Candeloro ruota attorno all’ossessione contemporanea per la bellezza, il benessere, la cura, e indaga un modello estetico e comportamentale che influenza in maniera sostanziale le nostre pratiche quotidiane. Si tratta di una normatività legata non solo all’aspetto fisico, ma anche agli stereotipi di genere e alle aspettative sociali. Questo “Mito della bellezza”, così come lo aveva chiamato Naomi Wolf negli anni ’90, si è ulteriormente esacerbato con lo sviluppo della rete e dei social network e si è sommato a quel diffusissimo immaginario cute che pervade piattaforme come Instagram e TikTok: si pensi ancora una volta ai video degli adorabili gattini, ma anche ai quei “super- super wow” e a quei “so cute” che gli/le influencer ripetono in continuazione.
Traslando i contenuti virali in forme scultoree uniche e irripetibili, Candeloro sembra far girare a vuoto i meccanismi di questo preciso modello culturale: sfrutta la stessa grammatica, lo stesso alfabeto, lo stesso sistema di segni e gesti, ma lo adopera per parlare una lingua diversa, forse oscura, segreta, tutta giocata in un transito che dal video va alla scultura. La cuteness è il cavallo di Troia che le permette di penetrare quel complesso sistema di regole, di svelarne il funzionamento, di illuminarne un altro possibile uso.
Se nel caso di “MY SKIN-CARE, MY STRENGHT” i lavori derivano da un unico spazio mediale, per l’opera U (2020), presentata in occasione della mostra “RETROFUTURO. Appunti per una collezione” al MACRO di Roma (2021–in corso), l’artista si appropria di forme che appartengono a due linguaggi differenti.
In quest’opera, Candeloro riflette sulla relazione tra il possesso e la conservazione e su una sostanziale interdipendenza tra queste due azioni. La scultura è formata da due moduli che rappresentano le maquette di altrettanti spazi simbolici. La parte superiore è modellata a partire dalla forma di una glass box che appare nella serie televisiva You – un thriller psicologico basato sull’omonimo romanzo e sul suo seguito, Hidden Bodies, scritto da Caroline Kepnes. Il protagonista della serie, il libraio Joe Goldberg (interpretato da Penn Badgley), utilizza questa gabbia di vetro per conservare una collezione di libri rari ma, per via delle sue caratteristiche (vetri intangibili, controllo dell’umidità e della temperatura, circuito di aereazione), la trasforma in un luogo di detenzione in cui imprigiona e sevizia le sue vittime. La parte inferiore, invece, si basa sulla planimetria della Von Sternberg House progettata dall’architetto austriaco Richard Neutra. Costruita nel 1935 a pochi chilometri da Hollywood, nell’allora semideserta San Fernando Valley, la casa era circondata da un fossato ed era stata concepita come una sorta di rifugio, dove Josef von Sternberg poteva godersi la sua collezione di Kandinsky, Archipenko e Matisse, insieme ai suoi cani e alla sua Rolls-Royce. Dopo essere passata nelle mani di vari proprietari – tra cui la scrittrice e filosofa Ayn Rand – la dimora è stata completamente demolita nel 1971.
U è come un essere ibrido, un ircocervo: è il risultato di un “editing scultoreo” in cui due elementi distanti – sia a livello spaziale che temporale – sono stati manipolati e montati in un’unica composizione. Chiamate a testimoniare la vicinanza tra il possesso e la conservazione, la glass box di Joe Goldberg e la casa progettata da Neutra danno forma a un corpo ambiguo e indefinibile – sulla soglia di dimensioni diverse – che sebbene sembri mostrarsi senza misteri, nasconde un universo di significati non immediatamente visibile.
In molti casi, la rete di forme e immagini che precede e accompagna i lavori di Candeloro si combina a tracce che derivano dalle sue vicende personali, dalla sua infanzia, dal suo vissuto, così come accade nella mostra “Envy & Gratitude” alla galleria Martina Simeti a Milano (2022). In quest’occasione, l’artista adotta un approccio profondamente autobiografico, si sofferma sui pregiudizi educativi, sulle paure e sui desideri che hanno segnato la sua esperienza di adolescente. Utilizzando la scrittura come metodo di lavoro e come strumento generativo, Candeloro spazializza una serie di interventi che descrivono una vera e propria rete pulsionale, dove immaginari e stereotipi codificati vengono intenzionalmente reiterati.
All’ingresso della galleria, due grandi illustrazioni, intitolate Envy & Gratitude or Graphology & Personal Growth (2022) e realizzate rispettivamente su carta e tessuto di cotone, introducono il principio “dualista” dell’esposizione. I tratti essenziali di questi disegni – rappresentati seguendo l’estetica dei cartoon realizzati a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila – mostrano degli occhi ingranditi che incarnano le due emozioni contrastanti espresse nel titolo della mostra: l’invidia e la gratitudine. Una simile opposizione informa anche le tre sculture “borsetta-lente” che costellano lo spazio espositivo: Integrity & Decadence; Abstract & Figuration e Urban and Provincial (tutte 2022). Si tratta di originali dispositivi di lettura in cui l’artista mette in scena una serie di valori binari che riguardano la narrativa del periodo in cui è cresciuta e, in particolar modo, quella legata alle riviste per teenager nate attorno agli anni Novanta. Candeloro realizza quindi dei disegni e delle scansioni che muovono da frammenti testuali e visivi estrapolati da queste riviste e li applica al di sotto delle lenti di ingrandimento che formano le sculture. In Abstract & Figuration, ad esempio, le lenti accolgono due diverse pubblicità di sigarette: la prima è totalmente astratta, la seconda presenta evidenti elementi figurativi. In Integrity & Decadence, invece, si vedono, rispettivamente, un volto di una ragazza sormontato dalla scritta Model Behavior e un articolo intitolato Bad Code. Abbasso la morale.
Oltre ad essere elementi formali, che portano le opere dell’artista ad assomigliare a delle bilance idrostatiche, le lenti delle sculture svolgono anche un ruolo simbolico, quasi come se la loro funzione reale fosse quella di contraddire la logica binaria riprodotta da ogni lavoro.
Sebbene la mostra sia quasi interamente giocata sui dualismi che sono all’opera nelle sculture e nelle illustrazioni, l’“elemento impazzito” della partitura di Candeloro è costituito dalla serie Marx the Girl (2022): sei lavori composti da alcune pagnotte fatte in casa dipinte con un fondotinta per il trucco della pelle (codice colore Ivory 20). La forma di queste piccole opere, significativamente installate a parete ad altezza bambinƏ, riprende quella degli orologi che vengono solitamente venduti per le camerette delle ragazze. Privati della loro funzione e riprogettati secondo il desiderio dell’artista, gli orologi di Candeloro sembrano opera di quella ragazzina che leggeva riviste per teenager e guardava anime negli anni Zero. Significativamente, il titolo di questi lavori fa riferimento a un passaggio di Economia Libidinale di Jean-François Lyotard (1974): un testo nel quale il filosofo francese, per inserire il pensiero di Karl Marx sull’atlante della “cartografia libidinale” e per sottrarlo alle interpretazioni teoriche troppo ortodosse, utilizza l’espressione “Marx la ragazza”.
L’abilità di Candeloro sta nel far diventare irriconoscibili le sue fonti, nel renderle frammentarie, aliene, quasi come fossero soltanto un pretesto. Assorbiti in un processo di consapevole autosabotaggio, i riferimenti dell’artista, assieme alle tracce della sua scrittura autobiografica, diventano via via più sbiaditi e tuttavia mutuano in nuovi sistemi di senso, capaci di sovvertire e ricalibrare quegli stessi motivi che li hanno prodotti.
Tutte le opere dell’artista sono in fondo il risultato di una traduzione intersemiotica mancata, dei biografemi illeggibili che testimoniano il tentativo (sempre fallito) di tradurre plasticamente qualcosa che è nato altrove, sotto altre spoglie, per altri obiettivi, ma che ritorna come una sorta di presenza fantasmatica, come un rumore di fondo. Destinate a dire sempre e solo “quasi la stessa cosa”, le sculture di Candeloro diventano delle presenze paradossali, delle isole immaginarie che fluttuano nella nostra realtà pur restando costantemente altrove – aggrappate a quei mondi, a quelle storie, a quegli scenari dai quali provengono.