Questa agenda nasce con l’intento di mappare una serie di progetti, residenze e realtà espositive in aree geografiche d’Italia più o meno distanti dal sistema mainstream dell’arte contemporanea ma che creano un dialogo con esso. “CROSS/ROADS” non è un ritorno al regionalismo né alla categorizzazione di una dimensione locale. È il tentativo di mostrare la portata di sistemi marginali, nuovi crocevia dell’arte presente che focalizzano la propria ricerca sul luogo a prescindere da dinamiche inscritte in strade note a favore di quelle relazionali, nella definizione di nuovi organismi pulsanti, pronti a ripensare le dinamiche convenzionalmente riconosciute.
Progetto
Incontro Jamie Sneider a fine settembre, Lecce era ancora caldissima. Mi accoglie sulla strada, con il calore tipico della gente del luogo (per chi conosce Lecce sa di cosa parlo). Sneider, artista e ricercatrice americana, lascia New York e si stabilisce in Salento definitivamente nel 2018. Nel 2019, in un antico palazzo ebraico del XVI secolo, fonda Progetto, uno spazio sperimentale e residenza per artisti che investe nella produzione di nuovi lavori pensati per il luogo.
Eleonora Milani: Jamie, durante la mia visita alla mostra “Autoreduction” di Dora Budor mentre parlavamo del rapporto di Lecce con la produzione di tabacco, mi hai raccontato dei tuoi interessi per i rituali di lutto e dolore, per il lavoro femminile, le danze di possesso performative tra le altre cose, e di come tutto questo ti ha portata qui. Sembra che tu abbia trovato in Puglia una tua dimensione per esistere di nuovo, per ripensare a una modalità sostenibile – sotto più punti di vista – per dare il tuo apporto all’arte contemporanea. Il rapporto profondo e rizomatico con il luogo è il focus dell’attività che svolgi con Progetto. Cosa rende questo luogo speciale e prolifico per te?
Jamie Sneider: Quando le persone visitano Progetto, mi viene chiesto più volte “Perché la Puglia? Perché Lecce?” divago in base al momento. Eppure, quando parli della mia “dimensione per esistere di nuovo”, sento di dover affrontare la risposta in modo diverso. Qui ho trovato un nuovo modo di esistere come artista e curatore, ma anche un modo di continuare a esistere come umano nel mondo dell’arte dopo aver perso i miei genitori. Questa è stata una scelta: interagire con il mondo e scegliere di vivere. Sono venuta in Puglia sei anni e mezzo fa, su suggerimento di tre persone: un gallerista con cui ho lavorato a Torino; l’architetto Joseph Grima, e un gallerista di Parigi che mi ha dato alcuni riferimenti come il film La Taranta di Gianfranco Mingozzi; gli scritti dell’antropologo Ernesto de Martino sul Sud, la magia e i riti funerari. Questo mi ha fatto conoscere autori come Silvia Federici e Antonio Gramsci e i registi Cecilia Mangini e Pier Paolo Pasolini. Ai tempi portavo avanti una ricerca sulle accuse di stregoneria e isteria femminile attraverso una lente storica.
A me era accaduto quello che studiavo: la perdita di contemporaneità nel mondo. Heidegger chiama dasein quella sensazione per cui la propria identità fluttua e non è attaccata al tempo che vive. Ernesto de Martino sostiene che i rituali di lutto e dolore nel Salento, il tarantismo, hanno aiutato le donne a reintegrarsi e a trovare il loro posto nel mondo contemporaneo. Sotto l’apparente morso di ragno, queste donne affrontavano la povertà, il lutto, l’abuso, il dolore… Oltre alla ricerca, in quel momento, per ragioni personali, ero profondamente interessata al lutto e ai suoi rituali. La morte è un evento che può causare un crollo personale, ma qual è la dimensione pubblica e sociale del lutto? Io non avevo gli strumenti per comprenderlo.
De Martino ha scritto spesso sul concetto heideggeriano di dasein – sull’esperienza di essere nel mondo – egli sostiene che dopo un evento traumatico c’è una crisi di presenza che ti separa dal mondo, una destorificazione personale, ovvero una perdita dell’essere in quel tempo. Come ci reintegriamo nel mondo contemporaneo? Quali sono i rituali per transitare e integrarci di nuovo nella cultura e nella comunità? Spesso le persone che subiscono un trauma cercano qualcosa che assomigli al dolore che sentono dentro. Come lo rendiamo visibile?
Nella mia vita ho avuto un approccio molto privato, tranquillo e confuso col dolore e qui c’erano professionisti del lutto che lo amplificavano, una performance pubblica del dolore. Personalmente non ho trovato questi rituali arcaici, anzi, le danze di possessione performative sono qualcosa su cui io e l’artista Bri Williams discutiamo molto. Qui ho cercato quello che mi mancava: un modo per organizzare la mia personalità frantumata. Dopo il lutto famigliare ho deciso che avrei fatto della Puglia la mia casa. Come la parte dell’astronave che si stacca dalla grande astronave, cerca una nuova terra e questa è costretta e straniera ma si sente come a casa.
EM: Il tuo rapporto con il luogo va oltre la produzione artistica e la ricerca espositiva. Attraverso la formula del simposio si connette al sistema produttivo, come ad esempio l’industria olearia, e a certe radici come i rituali di lamentazione funebri – qui penso al tuo legame con le letture di Ernesto de Martino. So che in futuro lavorerai su simposi sull’architettura sostenibile e sulle questioni ecologiche e agricole. Come si legano queste ricerche al programma di residenze?
JS: A volte i simposi sono legati all’artista e alla mostra, ma esistono anche come domande – cosa può fare uno spazio? A cosa è innatamente interessata la persona che lo gestisce? Tutti gli spazi sono intrinsecamente politici. Tutto in Progetto nasce dal desiderio di affrontare questi temi: sostenibilità, ecologia, architettura, migrazione e la semantica estremamente problematica di “espatriati contro migranti”, inquinamento industriale e artisti che vengono da quelle città. Tutto questo è in linea con uno spazio d’arte. Cosa c’era qui? E cosa c’è qui, ora? Progetto è un’ipotesi che può cambiare e cambierà nel tempo, è una relazione reciproca tra gli artisti che seleziono, le loro ricerche e la possibile relazione con il luogo. Gli artisti non hanno regole né imposizioni, ma la ricerca è una parte fondamentale dei progetti – nella nostra ultima mostra, “Autoreduction”, Dora Budor si è ispirata ai movimenti dei lavoratori, ai collettivi cinematografici femministi italiani e alle lavoratrici di tabacco; Ser Serpas ha fatto un lavoro sui rifiuti, un fenomeno enorme qui.
La Puglia richiede attenzione, è un luogo da esplorare. Quello che mi trattiene qui non lo capirò mai, ma sento che qui ho abbastanza tempo per vivere. Le città pugliesi sono piccole isole circondate dalla campagna, questa è una regione agricola, la sua monocultura sono gli ulivi e a Sud di Brindisi la maggior parte sono morti, come si può ignorare questo? Il mio interesse per l’olio viene dal fatto che conosco molto bene la campagna perché ci vivo durante i mesi in cui gli artisti sono in residenza a Progetto. In questi periodi, quando non sono a Lecce, vivo in campagna, così mi sembra di capire meglio la Puglia. Guido dal Sud al centro della Puglia quasi ogni giorno, da Leuca a Bari. Vedo il passaggio degli ulivi dalla vita alla morte, i campi in fiamme giorno e notte per il caldo o per dolo. La mia comunità in Puglia è molto varia, è fatta di artisti e curatori; antropologi e giornalisti; contadini, elettricisti, addetti alla distribuzione dell’acqua nelle campagne, e tanta gente che non sa cosa faccio.
C’è qualcosa in Puglia che è la dimensione giusta per una vita intera. Sembra a tratti così grande da inghiottirti. In questi anni sono andata in ospedale due volte… Qui ho visto il cancro e la qualità dell’aria. Mi interessa la vera realtà pugliese e la salute della sua gente, non solo il mare instagrammabile.
EM: Il tuo rapporto con Lecce è legato all’assenza. In un certo senso è un vuoto che ti ha condotta qui, e questo vuoto interiore ti ha avvicinata al vuoto fisico dei molti palazzi di Lecce abbandonati. Hai fatto del vuoto un pieno e ne immagini un’estensione continua. Hai visualizzato il vuoto di certe pratiche espositive qui a Lecce, colmandone una parte. Che futuro vedi per l’arte in questa città? Vedi un’evoluzione nell’incontro di Progetto con altre giovani realtà espositive?
JS: Lo spazio vuoto mi dà il tempo di pensare come artista, curatore, ricercatore. A dierenza di New York, dove tutto è commercio. Quando ero bloccata a Brooklyn per una parte del lockdown mi sono detta: è tutto un negozio. Non possiamo sopravvivere come esseri umani solo con il commercio. Amo New York, ma non posso fare la mia parte come essere umano lì. Qui c’è spazio. Ci sono edifici non finiti. Vuoto da sentire, da contemplare. Vedendo gli edifici abbandonati e i negozi nelle piccole città ho iniziato a pensare allo spazio vuoto e alla curatela. Ricordo che il primo spazio vuoto che ho visitato è stato a Galatina e ho avuto l’impulso di fare progetti espositivi, l’idea di portare gli artisti in Puglia. Vuoto e pensiero espansivo. Non l’ho mai verbalizzato pubblicamente, ma quando vedo le fondamenta di un edificio in Puglia – i blocchi di cemento calcareo, la struttura in ferro o acciaio – abbandonata o ancora da finire – vedo uno scheletro e un corpo nello spazio. Vedo una possibilità di pensare, di piangere. Non che io non abbia radici, ho delle essenze. Amo la Puglia, la difendo come fosse mia, sapendo che non lo sarà mai. Non voglio possederla, né rivoluzionarla, voglio solo impegnarmi nel dialogo. Voglio setacciare la sporcizia e dare agli artisti un posto dove esporre.
studioconcreto
Il mio primo incontro con Laura Perrone e Luca Coclite è avvenuto a Roma, in uno spazio istituzionale che ha ben poco in comune con l’intimità e la convivialità di un appartamento, luogo scelto da studioconcreto come sede del loro progetto di ricerca nato con l’intento di ripensare il dialogo tra il pubblico e il privato. Una casa popolare in un quartiere popolare di Lecce diventa così uno spazio attivo e condiviso ove vengono coreografate mostre, incontri, performance che indagano e restituiscono il rapporto tra l’arte e le gestualità che compongono il quotidiano.
Ilaria Gianni: Come si struttura la natura e la direzione di studioconcreto?
Luca Coclite, Laura Perrone: studioconcreto nasce dalla necessità di indagare le diverse forme della sperimentazione artistica che conciliano l’arte con le gestualità del quotidiano e riflette sulla prossemica degli spazi non convenzionali contrapposti alla pianificazione progettuale istituzionale. Lo studio sorge a Lecce in un quartiere popolare INA-Casa, il piano edilizio che nella sua configurazione sociale può essere considerato come un’evoluzione della “Casa a corte” salentina alla quale ci rifacciamo dal punto di vista evocativo. In questo genere di architettura il cortile – elemento architettonico principale della casa – è concepito come uno spazio polifunzionale, di incontro e di socializzazione. Questa immagine per noi si traduce in quell’interstizio tra spazio pubblico e privato, dove si sperimentano i valori di amicizia e collaborazione, dove i corpi s’incontrano restituendo alla strada quel ruolo eroico indispensabile al risveglio della necessità oggettiva del fare comunità.
I modelli ai quali ci siamo ispirati e che abbiamo avuto modo di approfondire grazie a delle collaborazioni, sono perlopiù legati all’ambiente domestico di fine anni ‘60. Facciamo riferimento al Experimental Intermedia Foundation di New York o alla più radicale esperienza di Norman Mommens e Patience Gray nelle campagne del basso Salento, fino alle sperimentazioni coreutiche di Anna Halprin dalle quali abbiamo attinto per una mostra realizzata in studio nel 2019. Tutti hanno in comune una visione collettiva della pratica artistica e rispondono quasi sempre a metodologie di pedagogia radicale, che hanno ispirato il nostro lavoro non solo dal punto di vista teorico. Partiamo dalla consapevolezza del corpo, dei linguaggi che utilizziamo, per arrivare alla comprensione delle urgenti questioni che riguardano i luoghi che abitiamo.
IG: Qual è la direzione che avete deciso di intraprendere rispetto al rapporto tra la sfera pubblica e il privato per costruire una nuova dimensione collettiva condivisa? Quali sono state le esigenze avvertite da un vissuto sul territorio e in sintonia con il vostro percorso di ricerca che vi hanno condotto a volervi porre su questa soglia così delicata?
LC, LP: Le nostre biografie, in termini di formazione ed esperienza sul territorio, sono da diverso tempo forgiate da pratiche che hanno a che fare con lo spazio pubblico. Il nostro percorso di ricerca, per ciò che concerne l’attivazione di luoghi urbani, inizia a prendere consapevolezza nel 2004 con alcuni esperimenti locali e si intensifica a livello teorico e pratico nei primi anni dieci del duemila con attività dal respiro più internazionale. Questo lungo arco temporale, che supera il decennio, coincide in buona parte con il periodo di profondo cambiamento culturale che ha investito questa parte del paese, abbondantemente viziato da logiche legate all’industria turistica e di conseguenza incline alla privatizzazione non solo dello spazio che ci circonda ma anche delle nostre coscienze. In quest’ottica cerchiamo di esaminare quelle che sono le discrasie che si sono generate in questi anni di sovraesposizione mediatica dove, l’interferenza tra i linguaggi contemporanei e linguaggi tradizionali che si rifanno alla cultura locale, hanno reso il campo fertile per la riflessione e il dibattito, generando fenomeni di rilievo e suscettibili di analisi.
IG: Come è stata percepita la scelta di lavorare in un appartamento e come siete riusciti negli anni a costruire un dialogo con il pubblico di Lecce? Come si è trasformato il vostro rapporto con la città e i suoi abitanti dai momenti iniziali delle vostre attività?
LC, LP: Sono diversi i momenti dialogici e di incontro con il nostro pubblico, con il quale, attraverso modalità non preorganizzate e informali, siamo riusciti a instaurare un rapporto di amicizia utile a renderlo parte integrante di quello che facciamo. Capita inoltre, che alcuni nostri vicini, oltre ad essere accaniti sostenitori delle nostre attività, di riflesso al nostro operare in un piccolo ex-soggiorno, ci abbiano messo a disposizione alcuni spazi domestici privati per svolgere alcune delle nostre attività laboratoriali.
IG: Momenti salienti del vostro percorso a Lecce o aneddoti da raccontare e ricordare?
LC, LP: Sicuramente sentiamo molto vicino, oltre alle diverse mostre realizzate – da Antonio Della Guardia alla collaborazione con Claire Fontaine, fino al recente incontro con Calori & Maillard –, le live-performance che costellano il nostro operato, che ci permettono di ristabilire un contatto diretto con i luoghi che ri-viviamo e di restituire all’intervento artistico quel valore di unicità che è proprio dell’opera quando si rifà al rituale. In questa direzione ricordiamo: “Zone Umide” di Donato Epiro, nel museo di biologia Pietro Parenzan; “Musica per un giorno, anno 6” la performance dalla durata continuativa di 24 ore, realizzata da Canedicoda e dalla danzatrice Roberta Mosca all’interno di un’antica chiesa che sorge in un luogo protostorico a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca; e “Live in spigolizzi” di Alvin Curran realizzato nel 2019 – il quale, per l’occasione, è tornato ad esibirsi nella casa di Norman e Patience, dove cinquant’anni prima compose il suo primo brano Under the fig tree.
PIA Studio
Anche a distanza di 600 km avevo intuito la portata radicale di PIA senza averla visitata. L’incontro con Valeria Raho e Jonatah Manno, non ha potuto che rinforzare il mio pensiero. Artista (Jonatah), curatrice e storica dell’arte (Valeria), nel 2017 fondano uno spazio nel quale idee e riflessioni sulla ricerca, progettazione e formazione artistica contemporanea hanno la possibilità di circolare orizzontalmente, grazie all’oerta di un’esperienza reale, condivisa, e sul campo.
Ilaria Gianni: Lavorare a Lecce è stata una scelta dettata da una volontà consapevole e da un desiderio di posizionarsi in un territorio specifico con la costruzione di una piattaforma innovativa da far dialogare con le maglie di una storia e di una cultura molto salda. Una dichiarazione fin dal primo giorno, eppure, se doveste declinarvi con uno statement come vi presentereste?
PIA: PIA nasce come scuola sperimentale di ricerca e produzione per le arti visive e gli studi curatoriali. Apre le sue porte qualche anno fa a Lecce, a San Pio, un quartiere vivace e dinamico per la presenza di realtà aggregative e botteghe in dismissione. Gli spazi di lavoro, così come il paesaggio naturale, hanno sin dagli esordi ispirato le azioni che abbiamo messo in moto all’interno di questo organismo che chiamiamo ‘scuola’ con il suo percorso formativo altamente professionalizzante che si caratterizza per la sua forte interrelazione tra conoscenze teoriche e produzione, creazione e cura. All’interno di questa struttura che studia e indaga in maniera meticolosa la storia dell’arte contemporanea più recente con affondi teorici, laboratori e crit, tutto è volto alla creazione di un ambiente che possa stimolare la collaborazione tra artisti e curatori all’interno, e soprattutto, al di là dei nostri corsi. È un’entità collettiva che al tempo stesso, e per la presenza di un numero limitato di iscritti, ci permette di portare avanti un lavoro persona specific su ogni studente. È vitale e germinativa, priva di gerarchie e fortemente connessa con il contesto in cui viviamo: è uno spazio di formazione ma anche un propulsore di dinamiche, in alcuni casi di elettricità su un territorio spesso sonnecchiante e guardingo verso il circostante. Come tutto il Sud Italia anche la nostra città soffre lo spopolamento e l’assenza di reti ad eccezione dell’estate in cui assistiamo a un fermento inusuale e frenetico. Stagionalità a parte, resta per noi un territorio dal grande potenziale per il suo posizionamento geografico e le stratificazioni multiculturali – europee ed extraeuropee – che si possono osservare.
IG: Nell’era della conoscenza (specialistica) avete, giustamente, pensato di partire dall’idea di fornire strumenti per l’ampliamento della conoscenza ad un gruppo di futuri professionisti dell’arte che hanno così la possibilità di vivere una situazione formativa in tandem ad una esperienza sul campo a Lecce, incentrando la conoscenza del contemporaneo alla storia di un territorio. Come avete pensato alla relazione tra arte, cura e spazio specifico?
PIA: Per il nostro gruppo di lavoro1, è stato naturale pensare a questa forma di relazione in forma olistica, abbracciando la complessità che questa delicata triade suggerisce. PIA è radicata in una regione altamente riconoscibile e riconosciuta grazie anche a narrazioni territoriali che hanno tuttavia lasciato indietro gli elementi di un vero dibattito critico per immagini più consolatorie. Così la scuola è diventata per noi una città in miniatura, un dispositivo in grado di esercitare un impatto, di imprimere una forma nella sfera pubblica dando vita a dinamiche che mettono quotidianamente in discussione i nostri ruoli e produzioni culturali. Dicendo questo penso a L’ira di Irene, una scultura in cartapesta frutto del laboratorio di co-creazione promosso dalla scuola durante Lecce Art Week (settembre 2021) e diretto da Liliana Moro con Barbara Casavecchia, che è diventata una riflessione sulla presenza, o per meglio dire assenza, di monumenti pubblici dedicati a figure femminili in città. Portata in processione per le strade del quartiere è stata salutata dai balconi con applausi di approvazione, una volta condiviso questo dato oggettivo con gli abitanti, a dimostrazione del fatto che i linguaggi del contemporaneo possono e devono, a vari livelli, attivare processi di discussione e partecipazione collettiva. Ovviamente, come in qualsiasi ricerca, non abbiamo formule lineari. Crediamo inoltre che il tempo giochi un ruolo fondamentale in queste dinamiche per la messa a punto di linguaggi e pratiche davvero innovativi.
IG: Come siete riusciti negli anni a costruire un dialogo con il pubblico di Lecce? Come si è trasformato il vostro rapporto con la città e i suoi abitanti dai momenti iniziali delle vostre attività?
PIA: Il processo è stato graduale. Da spazio indipendente abbiamo attivato sin dall’apertura un dialogo con studenti e studentesse, docenti dei licei, con le istituzioni, locali e non; con la comunità artistica nazionale e internazionale, coinvolgendo privati, realtà imprenditoriali nella conoscenza di un progetto che, a partire da una scuola, sta cercando di costruire un discorso più ampio con il territorio e i suoi abitanti. Anno dopo anno il dialogo cresce, lo vediamo attraverso questa lente che è Lecce Art Week, in un’ottica sempre più sfidante e caleidoscopia. Cresce perché continuiamo a nutrire questo scambio, favorendo anche la realizzazione di progetti internazionali come Palai2. Allo stesso tempo anche il contesto ci dimostra un interesse sempre crescente nei riguardi delle nostre proposte. La dice lunga la partecipazione di centinaia di ospiti alla mostra finale della scuola, con cifre ragguardevoli per una piccola città. Oltre alla persistenza, radice poetica del nostro operato, riteniamo che tutti questi segnali siano da leggere in prospettiva e con fiducia, soprattutto da parte degli studenti che hanno frequentato e frequenteranno la nostra scuola.
Spazio Su
Sulle scale d’ingresso di una abitazione al secondo piano di un palazzo signorile nel centro storico di Lecce si sviluppa Spazio Su, un project space fondato e gestito da Gianni D’Urso e Grazia Amelia Bellitta. È un luogo d’incontro dove proporre e assimilare nuovi linguaggi di ricerca del panorama contemporaneo.
EM: Nascete in un anno particolare, il 2020, in cui il mondo della cultura, dell’arte, quello esperenziale soprattutto, hanno subìto un arresto. Da quanto lavorate all’idea di Spazio su e che genere di ricerca portate avanti?
Gianni D’Urso, Grazia Amelia Bellitta: Spazio Su è la risposta al desiderio di creare un “luogo” di supporto alle ricerche di artisti che stimiamo, alla nostra necessità di confronto e al bisogno di creare un trait d’union tra la città in cui viviamo e l’esterno. Le scale, così caratterizzate dalla loro architettura e funzione, che collegano lo spazio domestico, intimo e privato con lo spazio pubblico, diventano occasione di dialogo, scambio e riflessione sui linguaggi contemporanei.
Abbiamo inaugurato a luglio 2020, subito dopo il primo lockdown. Fattore, quest’ultimo, che ci ha portato a orientare il focus sui rapporti: con le altre realtà del territorio, con gli artisti e con il pubblico. Abbiamo definito le nostre intenzioni proprio durante i primi mesi di pandemia e, di conseguenza, alcune riflessioni sono state rafforzate da ciò che stavamo vivendo. Abbiamo dato, quindi, un grande valore all’esperienza, all’ospitalità e alla presenza.
EM: Avete un immaginario visivo digitale molto contemporaneo, cosa volete restituire al pubblico di Lecce?
GDU, GAB: Siamo molto attenti a ciò che succede soprattutto nel panorama contemporaneo nazionale e cerchiamo di costruire un immaginario che in qualche maniera comunichi anche oltre i confini territoriali. Se da un lato, infatti, diamo importanza alla presenza, dall’altro riconosciamo che esiste anche un pubblico digitale. Ci piace quindi pensare a una restituzione che parte da qui ma che va oltre il territorio per cercare di affiancare al pubblico di Lecce, un pubblico più ampio.
Palai
Il progetto nasce da un’idea di Daniele Balice e Nerina Ciaccia, rispettivamente direttori delle gallerie parigine Balice Hertling e Ciaccia Levi, entrambi di origine pugliese. “Palai” – dal dialetto griko locale “palazzo” coinvolge otto gallerie – Antenna Space (Shanghai), Blum & Poe (Los Angeles, New York, Tokyo), Sadie Coles HQ (Londra), Bill Cournoyer / The Meeting (New York), LAYR (Vienna, Roma), LC Queisser (Tbilisi) e per l’Italia Veda (Firenze) e ZERO… (Milano) – e artisti internazionali nella storica sede di Palazzo Tamborino Cezzi invitandoli ad attivare uno scambio in un territorio decentralizzato. Palai ha inoltre attivato un dialogo con il territorio coinvolgendo il Comune di Lecce, l’Accademia di Belle Arti, l’ADSI – associazione Dimore storiche, Terraterra art residency, e PIA Studio. Abbiamo chiesto a due delle gallerie coinvolte, ZERO…, Milano e VEDA, Firenze di raccontarci il loro punto di vista.
EM, IG: Cosa vuol dire per una galleria inserita nel tessuto culturale di una città come Milano proiettare la sua ricerca nel contesto di Palai, in una città diametralmente opposta? Come cambia il lavoro sulla selezione degli artisti e anche delle opere?”
Paolo Zani, Claudia Ciaccio: L’idea è quella di trasferire la nostra proposta in un contesto diverso, ma altrettanto dinamico e interessante. Stimolante e con risultati incoraggianti lo sviluppo di quest’opportunità. Condividere con colleghi stimati e un pubblico eterogeneo e curioso un’esperienza di dialogo e collaborazione in un luogo effettivamente adatto ad accogliere tale situazione è stato molto soddisfacente. Un progetto che speriamo possa ripetersi ed evolvere. Il ricordo di Lecce, in questi grigi giorni autunnali, è più che mai vivo.
EM, IG: Cosa vuol dire per una galleria italiana come VEDA, che lavora con artisti prettamente internazionali, proiettare la sua ricerca nel contesto di Palai? Ha incidenza sulla selezione degli artisti e delle opere?
VEDA: Prendere parte a un progetto come quello di Palai è stata sicuramente un’ottima occasione per connetterci al panorama italiano. Pur rappresentando artisti prettamente internazionali, c’è da sempre in VEDA la volontà di portare e restituire qualcosa “a casa”. Palai è stato in questo senso l’occasione per far conoscere al pubblico italiano una selezione di artisti ancora poco conosciuti nel panorama nazionale ma la cui ricerca è molto apprezzata all’estero.
Salgemma
Salgemma è un progetto di comunicazione, editoria e formazione per l’arte e la cultura contemporanea nato nel 2020 in Puglia a cura di Roberta Mansueto e Rosita Ronzini. Il progetto si sviluppa su una piattaforma digitale con l’obiettivo di valorizzare il panorama artistico e culturale contemporaneo pugliese oltre i confini regionali attraverso un magazine di interviste e approfondimenti, una newsletter, un calendario di eventi, una mappa in continuo aggiornamento e diversi servizi per la comunicazione. Salgemma ha come obiettivo valorizzare una geografia dell’arte in Puglia e incoraggiare una nuova produzione culturale, creando occasioni di scambio e incontro per avvicinare un pubblico sempre più ampio attraverso la comunicazione digitale e editoriale.