In conversazione con Gianluca Pulsoni, Danilo Correale (Napoli, 1982) ripercorre la genesi del suo film Diranno che li ho uccisi io (2018), focalizzando l’attenzione sulla scelta dei materiali e degli attori, la costruzione del set e il rapporto arte-cinema.
Gianluca Pulsoni: Diranno che li ho uccisi io è il tuo primo film e si tratta di un’operazione che mette insieme e lega sei progetti filmici italiani mai realizzati. Si toccano temi storici con La brigata inesistente di Augusto Tretti, Un dio nero un diavolo bianco o Il Colonialismo di Sergio Spina e Brigate Rosse di Dario Argento. Ma ci sono anche l’osservazione sociale con La ballata degli angeli assassini di Claudio Caligari. E, per finire, biografie reali e immaginarie con la Simone Weil in Lettere dall’interno di Liliana Cavani e Giuseppe Desa da Copertino in A Boccaperta di Carmelo Bene. Come hai lavorato a questa selezione? Perché queste scelte e non altre?
Danilo Correale: Credo che il tentativo sia stato quello di mettere insieme un’antologia prima dei generi e poi dei temi storicamente sotto-rappresentati dalla cinematografia italiana, ma non solo. Nel “cine-limbo” degli incompiuti cinematografici è facile trovare progetti che volevano esplorare territori moralmente e politicamente fastidiosi e che, per diverse ragioni, non hanno mai trovato le condizioni giuste per poter essere realizzati. Per esempio, Dario Argento parla del senso di grande potenzialità inespressa e di grande frustrazione provati quando il suo progetto di film sulle Brigate Rosse venne più volte respinto dai produttori, perché troppo scomodo e complesso. Più in generale posso dirti che le storie che ho scelto sono accomunate da un potenziale ancora vivo e attuale, oltre che dal loro essere iconoclaste se messe in relazione alla produzione filmica degli anni in cui sono state pensate. In questo senso, è importante ragionare sul concetto di storia in funzione del momento politico e culturale in cui viviamo, il bisogno per questo di decolonizzarla e – dove necessario – riscriverla.
Da dove viene il titolo del lavoro?
Il titolo viene da un passaggio di una delle “sceneggiature liberate” di Claudio Caligari e Salvatore Samperi che, nel 1984, volevano raccontare una storia sulla periferia romana e sull’incontro-scontro tra un ragazzo di borgata e uno proveniente dalla piccola borghesia di periferia (Marco e Francesco). L’intero racconto si articola intorno a quelli che sono i temi amati da Caligari: la tossicodipendenza, l’omosessualità, la prostituzione. Ma soprattutto è un racconto-verità dove l’inesorabile sorte dei due protagonisti è scandita da un senso d’impotenza verso una società sprofondata nel consumismo e che è specchio della mutazione antropologica dell’Italia del post-boom economico. Credo che la toccante storia personale di Caligari mi abbia coinvolto più di altre e per questo ho creduto in un titolo tra il poliziottesco e il racconto generazionale. Poteva dare bene l’idea del progetto nel suo insieme.
In Diranno che li ho uccisi io hai optato per diversi stili di racconto: uno per ogni progetto reso “episodio”. Come hai concatenato tutto questo? Nello specifico, mi piacerebbe che parlassi del ruolo di Ernesto Mahieux nel tuo film.
Insieme alla scelta di lavorare sui temi si è manifestata, in maniera del tutto naturale, l’idea di lavorare sui generi del racconto. Si va dal film d’inchiesta al thriller, da quello d’azione a quello biografico e teatrale. Insomma, un caleidoscopio abbastanza ricco che apre uno spiraglio sui diversi generi del cinema e del racconto. Non è un approccio nuovo per me. In un mio lavoro precedente, NoMoreSleepNoMore (2015), mi ero avvicinato in maniera simile al soggetto del sonno e della veglia nella società tardo-capitalistica. In quel caso avevo iniziato ad analizzare l’argomento sotto otto diversi profili: quello femminista, postcoloniale, filosofico-antropologico e così via.
L’idea di decostruzione delle storie e degli argomenti mi interessa non solo perché ne rende possibile un’articolazione problematica, ma anche perché sconfinare dai linguaggi e postulati accademici aiuta a rendere un argomento più fluido e, se vogliamo, interpretativo.
Ovviamente, uno degli aspetti più complessi del progetto è stato la creazione dei raccordi tra queste storie frammentate. Per me il tutto doveva funzionare in maniera quasi naturale, cioè la storia nel suo complesso doveva svilupparsi in maniera ritmica. Per questo il ruolo di Mahieux, che abita un tempo e uno spazio tra lo strutturalista e quello del gabinetto del dottor Caligari, ha una funzione a metà tra la voce onnisciente e la metonimia. È un personaggio tra il burocrate e il geloso, ma sempre innamorato custode di una storia non svelata.
Quali sono stati i criteri che hai seguito nella scelta degli attori per gli altri incompiuti cinematografici?
Avevo in mente il bosco degli uomini-libro in Fahrenheit 451. L’idea è che gli attori scritturati potessero loro stessi diventare la memoria di queste storie incompiute e, così, liberarle. E un po’ è andata proprio in questo modo. La ricerca è iniziata abbastanza presto, quando ho sentito di avere davvero compreso i personaggi che questi registi avrebbero voluto portare in vita. Da quel momento in poi, in alcuni casi, abbiamo organizzato dei casting, in altri mi sono invece fidato delle intuizioni di collaboratori che, con intelligenza, hanno saputo leggere nelle trame del progetto e suggerirmi degli interpreti. Direi che il tutto si è svolto in maniera organica. In primis c’è stata la condivisione delle sei storie con ognuno degli interpreti. Poi ho avuto moltissimi incontri con gli attori e un ampio periodo nel quale confrontarmi con loro, condividendo idee e soluzioni.
Come hai lavorato con gli attori? Avendo visto alcune riprese e il girato, mi immagino ci siano stati approcci diversi – magari frutto di momenti critici e scoperte? Oppure dovuti all’esperienza e alla personalità di alcuni di loro (penso, per esempio, a Claudio Morganti)?
È stato come dirigere un sestetto d’archi nel quale non ho dovuto insegnare a nessuno come suonare uno strumento, forse solo indicare loro come farlo con la mano opposta. La coralità del lavoro si è manifestata non solo di fronte alla macchina da presa, ma si è estesa lungo tutto l’arco di tempo che ha anticipato le settimane di riprese, ed ha riguardato sia gli interpreti che tutte le voci coinvolte nella produzione. La fiducia e il coinvolgimento nel progetto, insieme alla costante discussione critica con chi è stato da subito vicino al progetto, come lo staff di Careof di Milano, hanno fatto il resto.
Oltre al ruolo di Mahieux, un altro elemento di raccordo tra le varie tracce è, senza dubbio, il set. Sarebbe interessante sapere da te come hai pensato e costruito lo spazio. Di che tipo di spazio si tratta? In che relazione è con i singoli incompiuti?
Il dispositivo-set è assolutamente protagonista, anzi oserei dire che occupa un livello narrativo a parte: quasi una coreografia autonoma. C’è stato un momento nei mesi precedenti alla produzione in cui ogni modulo del set aveva un nome, ed era quindi trattato alla pari di un interprete. Il disegno dei moduli è stato realizzato attraverso un processo di sottrazione – quasi scultoreo – svolto insieme ai progettisti di GISTO. La relazione tra il set e gli incompiuti è simile a quella che c’è tra un disegno e un pantografo: il pantografo è capace di espandere una traccia ma anche di costruirne una totalmente nuova perché la scala completamente diversa crea, di fatto, una nuova versione. Cioè, non solo una copia di qualcosa.
Oltre ad essere un’operazione critica di mediazione e rilettura di opere altrui, Diranno che li ho uccisi io è anche un lavoro interpretabile esso stesso come un film. La cosa interessante è che però sembra essere a cavallo di diversi generi, senza identificarsi in uno specifico. Per esempio, c’è una “drammaturgia” che pone il tutto tra documentario e messa in scena (Mahieux archivista che ci invita a riscoprire determinati progetti che sono nascosti e perduti). Ma c’è pure – per dire – un certo uso critico dello split-screen rintracciabile in alcuni film-saggi contemporanei, tra arte e cinema. Quali sono state le tue linee guida mentre hai girato e montato il lavoro? Qual è la tua idea di cinema?
L’intero progetto si è costruito su un assioma diverso – diverso da quello del cinema, dell’arte o del teatro: non credo di essere parte di nessuno di questi mondi che, allo stesso tempo però, sono parti di me. Il denominatore comune di tutti questi linguaggi è il commento all’egemonia culturale: ciò di cui parla l’intero lavoro. Più che il montaggio, è stata la costruzione delle situazioni, e quindi l’insieme degli ostacoli posti agli attori nell’interpretare le storie, che ha definito la forma del film. Il confrontarmi con diversi linguaggi del cinema, diversi colori, luci e ritmi è stato fondamentale. Diranno che li ho uccisi io è un frammento di un mosaico molto più vasto che non può essere completato. Quella che ho cercato di compiere è un’operazione riconducibile in alcuni momenti al concetto e all’etica del restauro, approccio che mi ha messo di fronte a scelte non solo storico-critiche ma anche estetiche. Gli split-screen, insieme alle voci fuori campo, espandono il tempo e lo spazio della pellicola producendo un effetto ulteriormente fuori dal tempo e, per questo, ancora di più riconducibile a un periodo storico specifico nel quale ogni episodio è ambientato.
Il tuo lavoro d’artista tocca spesso temi sociali e politici attraverso un filtro ironico. Questo film non fa eccezione, pensando a certi toni nella recitazione di Mahieux, ma anche al finale, con Morganti che finisce la sua lettura di Carmelo Bene con un passaggio estremamente comico – e, quindi, crudele. Ora, perché questo filtro?
L’ironia o comunque la satira è una costante nella mia pratica, anche se in Diranno che li ho uccisi io è forse meno presente che in altre opere. Sicuramente la creazione di situazioni parallele, protese verso il registro dell’assurdo è una strategia che permette di commentare la realtà senza banalità ideologiche o di contesto. Questi sono livelli di lettura non immediatamente percepibili ma che, a mio avviso, quando innescati, possono produrre effetti ben più dirompenti di un linguaggio usato secondo un canone o una maniera. Augusto Tretti, al quale il film è in parte dedicato, era un maestro in questo: una voce non allineata e preziosa che ha fatto del cinema grottesco un’arte alla pari del cinema surrealista spagnolo. Dal mio canto, ritenendomi pur sempre un iconoclasta, non posso far a meno di rispondere alla mia natura e forse l’ultima scena del film allude proprio a questo.