Schermi, tubi catodici e persistenza della retina: ecco un piccolo sistema delle componenti archetipiche di un’esposizione dedicata alla video arte. Ingredienti genialmente declinati se si tratta di una retrospettiva dedicata a una delle sue figure maggiormente rivoluzionarie, la newyorkese Dara Birnbaum a cui Fondazione Prada dedica la prima monografica italiana, a cura di Barbara London con Valentino Catricalà ed Eva Fabbris.
Un glossario destinato a proiettare il visitatore tra le correnti elettroniche delle immagini in movimento. Di tale palpitante turbinio, tuttavia, non deve essere sottovalutata l’azione “invisibile” svolta da uno dei suoi principali attributi. Perché in effetti, prima ancora di schiudere uno spazio dell’immagine in movimento, l’esposizione realizza uno spazio del suono. Uno spazio che agisce come ambiente motorio: percorrere i due piani in cui si articola il percorso espositivo significa compromettersi con un diagramma di universi acustici di cui si avverte il sopraggiungere diffuso, talvolta non discernendone con chiarezza l’origine, in altri casi rimanendone disorientati. Operativamente, significa camminare, sostare sul posto o eventualmente sedersi, lasciandosi persuadere dal flusso.
Una simile dinamica rivela uno degli assi cardinali di tale impresa. Ossia l’esistenza, del tutto contestuale, di un duplice livello di esperienza. Un primo stadio, definibile come immaginifico, che si consuma entro il perimetro del singolo apparecchio di trasmissione e proiezione. Fuor di metafora, esso racchiude tutto ciò che accade sulla superficie liquida di uno schermo, sia esso analogico o digitale. Un secondo, invece, legato alla nozione di circuito, o più propriamente di organismo: tale grado si riferisce alla configurazione di un dialogo elettronico promanato dalle unità che compongono la singola o le molteplici installazioni che, nella pratica di Birnbaum, raggiungono sovente una dimensione architettonica. Ecco allora l’immagine e il suo essere parte attiva di una costellazione: una galassia storico-artistica, animata dai filmati di Paik, Nauman, Serra, Acconci e Benglis, in cui l’opera di Birnbaum si inscrive, istituendo precocemente una fenomenologia del linguaggio televisivo, e dunque dei suoi tropi, inflessioni, controindicazioni.
Il primo piano dell’esposizione declina un simile intento in termini intermediali. Cosa viaggia, più precisamente, a spasso tra i linguaggi? Si direbbero i modi del montaggio, che assumono in Birnbaum la valenza già benjaminiana di strumenti mediante cui scuotere, sul fronte socioculturale, lo spettatore. Nell’itinerario ascensionale, ciò avviene sin dal piano zero dell’esposizione, con il piroettare luministico della celebre eroina di Technology Transformation: Wonder Woman (1978-79), emblema della concertazione androcentrica e opportunamente agonistica dell’immagine femminile. Istantanea patica, poi, sigillata nella circonferenza di supporti in plexiglass del nucleo Quiet Disaster (1999), in cui le figure migrate dal mondo dei fumetti offrono una nomenclatura ben codificata di espressioni di terrore, con occhi sgranati e labbra tremanti. È sulla manomissione, sistematica, dei rapporti tra significato e significante, tra aspettativa e realtà che si colloca il cuore della ricerca di Birnbaum.
Non solo l’esoscheletro metallico in cui viene congegnato il dispositivo para-cinematografico di Computer Assisted Drawing: Proposal for Sony Corporation (1992-2017), bensì gli involucri che incapsulano, quasi fossero dei fenicotteri alieni, i televisori dai grandi glutei delle serie di Six Movement (1975) e Pop-pop video (1980). Se è noto che Birnbaum concepisce l’immagine in movimento nella sua valenza di ready made, tali esemplari assurgono a esercitazioni rigorose, i primi sulla relazione sempre distonica tra l’io corporeo e la sua rappresentazione, i secondi rispetto alla concertazione altrettanto dissonante di fonti televisive in voga durante gli anni Ottanta. Patchwork non-postmoderno, quanto piuttosto eversivo, cantato dal poema di Damnation of Faust Trilogy (1983-2017), rilettura in chiave femminista, eccentrica e post-punk dell’illustre precedente goethiano.
Al secondo piano, tale orchestrazione critica delle fonti assume una strutturazione più marcatamente architettonica. Nell’installazione multimodale (e mediale) Journey: Shadow of the American Dream (2022) temporalità plurime collassano su loro stesse, attivando un discorso policentrico sulla sostanza della memoria, insieme collettiva, individuale e necessariamente politica. Tre gigantografie immortalanti la New York del secondo dopoguerra definiscono le quinte e la seduta dell’opera, la cui coesione spaziale, più profondamente, risiede nel carosello di voci, rumori e sigle propagate dai sei monitor che trasmettono i programmi di punta all’epoca e una maxi-proiezione digitale dell’infanzia dell’artista. Operazione resa ora linguistica in Lesson Plans (To Keep the Revolution Alive) del 1977, intervento fotografico sulle convenzioni del linguaggio televisivo, focalizzato sull’intersezione tra controcampo, percezione e parola.
Approdo della retrospettiva, infine, risulta l’assimilazione, certamente non connivente, dell’architettura dei dispositivi di trasmissione dell’immagine, culminante con il trapianto di Transmission Tower: Sentinel (1992) dalle distese dell’Illinois passando per Kassel negli anni Novanta sino a giungere, oggi, a Milano.
Le immagini contagiano, il flusso esonda, la retina suda: il potenziale inventivo di un simile meccanismo, Birnbaum non solo lo declina da oltre un quarantennio con acume, bensì lo ha presagito con la lungimiranza dell’aruspice che scruta il futuro non tra i visceri, quanto nella materia vibrante dell’immagine.