Il progetto di Gnoli prevedeva un uso anomalo della prospettiva, un taglio dell’immagine di tipo fotografico (contraddetto però nella sua logica), un avvicinamento straordinario all’oggetto (fino al limite del dettaglio), la scelta di un’iconografia rivolta alla pelle delle cose o, meglio, al loro rivestimento. Ed ecco le stoffe, i pizzi, i broccati, gli spinati delle giacche, i ricami degli abiti femminili dentro cui premono corpi smodati e prigionieri. Tutto ciò è perfettamente in linea con l’identificazione del mondo in quanto linguaggio, realtà “dura” e concreta ma, nello stesso tempo, sovrastruttura fragile ed annebbiante. Ma oltre a ciò, il fatto che dal ’64 in poi nel panorama di Gnoli le stoffe e i tessuti si moltiplichino rincara la dose di quel tanto di anomalia inserita nella prassi del guardare. Adesso peraltro tutto sembra opporsi a qualsiasi speranza o vantaggio del “vedere da vicino”. Infatti, da vicino, il particolare si ingrandisce a cosmo e ti riempie gli occhi lasciandoti come ulteriore ipotesi una nuova successione di altri, infiniti ingrandimenti. In sintesi si tratta di un bersaglio che beffardamente si allontana, cosicché il linguaggio che abbiamo visto identificarsi con l’immagine si rivela sì un oggetto di conoscenza, ma anche e soprattutto un oggetto di desiderio: come se Gnoli inseguisse una lingua capace di incatenare il mondo a sé e a se stesso, e questa pulsione desiderante lo inducesse a tendere a continue trappole predisposte per la realtà e per lo sguardo che vi si rivolge. La trappola scatta sui tavoli di un ristorante, nell’incavo di una poltrona, sui bottoni di una giacca, sulla cravatta, l’occhiello, il colletto di una camicia, sulle scarpe, sui letti in cui affiorano corpi amorosi, sulla torta, la pelliccia, i capelli maschili e femminili, lo zip, la riga o la treccia di una capigliatura. I soggetti, com’è tipico di Gnoli, si ripetono: forse perché a rinnovarsi è il desiderio di una lingua cui nulla sfugga e che tutto possa catturare nella sua ferrea e tuttavia fragile “durezza”. Ma se tutte queste prassi di lavoro, se ad esempio la prospettiva e il taglio fotografico dell’immagine non apparissero precarie ed improbabili, una tale forza desiderante sarebbe indifesa ed ingenua, ancora nutrita di quella resa al primitivo che invece, dal ’64 in poi, l’artista ha lasciato alle proprie spalle. Adesso c’è l’humor, una consapevolezza d’instabilità e un sorriso alla Sisifo di Camus che lanciano sulle opere un bagliore di irridente e a volte disperata allucinazione: ed è quello stesso sorriso della mente che già da tempo attraversava molti lavori di grafica. Ad ogni buon conto, l’energia nuova che si sprigiona nei sei anni felici (dal ’64 al ’69) di Domenico Gnoli pittore la si deve soprattutto a quell’insorgenza dell’humor che era stato di Duchamp e che Breton diceva appartenere ad una parola inglese peraltro intraducibile.
Si diceva di una prospettiva tesa a svelare un sottofondo di irrealtà e il sentimento insinuante del precario. Basterà osservare ad esempio come in Deux Dormeurs inaspettatamente i bordi del letto si presentino nella parte alta della tela, come sia improbabile la fuga delle linee in Green Bed Cover e in Letto Verde per convincersi che anche la prospettiva è per Gnoli un’arma di sorpresa e in fin dei conti uno strumento tutt’altro che tranquillizzante. In un testo del ’67 Barilli scriveva di volontarie “scorrettezze” fotografiche riferendosi alle teste troncate dall’inquadratura. Credo che una tale osservazione si debba estendere anche a certe improvvise convergenze delle linee, magari prospetticamente corrette, ma che appaiono ingiustificate ad occhio nudo e frutto forse di lenti addizionali frapposte tra la realtà e l’obiettivo. Infatti il procedimento di Gnoli in tutti questi lavori si rifà alla prassi fotografica, come se la struttura di questo linguaggio tecnologico fosse ormai incorporata nella logica e nelle modalità del vedere quotidiano. Vale a dire che anche l’occhio aderisce alla storia e alla lingua, e dunque si muove ed osserva attraverso il meccanismo dei tempi, dei diaframmi e del mirino. Ma quantunque sia probabilmente questo il senso generale di una simile allarmante prospettiva, i risultati raggiunti propongono altre riflessioni. Intanto non vi è dubbio che questa tecnica sia usata in negativo, così da contraddire secondo coerenza di progetto qualsiasi rapporto iconografico di matrice realista. Si tratta infatti di una prospettiva che sottolinea la propria innaturalità e l’appartenenza a un sistema storico di interpretare e riprodurre il mondo. Gnoli non propone la fuga delle linee visive, come nel caso della Pop che raccoglie in toto il mondano della sua esigenza banale; e nemmeno si può dire che per l’artista italiano la prospettiva sia un caso come un altro che si presenti in maniera del tutto contingente.