Per il quarto appuntamento del progetto triennale di Angel Moya Garcia, “Dispositivi sensibili”, i padiglioni gemelli del Mattatoio di Roma ospitano la mostra personale di Dora García. Il titolo, “Conosco un labirinto che è una linea retta”, delinea un percorso e suggerisce un approccio. Retta è la linea bianca a terra che divide il Padiglione 9B come fosse un ideale sostegno visivo durante un cammino affatto stabile dando unità a un procedere sollecitato da deviazioni e connessioni di senso.
Lo spazio è ritmato da tre momenti performativi. Il primo è La partitura Sinthomo. Qui un oratore legge il seminario XXIII di Jacques Lacan – Le Sinthome del 1975-1976 – dove lo psicanalista francese individua nel sintomo il legante tra simbolico, immaginario e reale e per farlo trae ispirazione dalla scrittura sperimentale, esplosiva, circolare di James Joyce. Ogni capitolo del seminario è accompagnato da disegni di García: traduzioni visive di movimenti del corpo ispirati al testo. Man mano che la lettura procede un performer (e anche chi tra il pubblico ne ha volontà) incorpora i movimenti disegnati dall’artista, creando quindi una coreografia del reale psicoanalitico lacaniano.
Due pianeti si sono scontrati per migliaia di anni è la seconda performance che accade su una delimitazione a terra fatta di due cerchi: il più grande bianco e il più piccolo, al suo interno, in negativo. Due performer devono riuscire a mantenere sempre la stessa distanza tra di loro guardandosi negli occhi. Se uno dei due si muove l’altro deve resettare la distanza prefissata, creando così una danza meditativa continua e senza via d’uscita. Non essendo i cerchi per nulla concentrici l’obiettivo è impossibile ma il tentativo essenziale, per cui si ricomincia dal principio.
Infine, in Il labirinto della libertà femminile, un performer, sempre su cerchio bianco, legge – a volte declamando, altre bisbigliando – poesie di autrici quali Anna Akhmatova o Amelia Rosselli. Poco distante parole silenti e bianche, a terra, urlano con le loro lettere maiuscole: “POSITION; VOICE; MUNDO”. Inserimento, in mostra, di un’altra scrittrice, la chicana Gloria Anzaldúa che, oltre a essere stata attivista femminista, ha fatto emergere nei suoi testi il problema dei confini e del dominio della lingua inglese meticciandola con lo spagnolo – cercando, come Joyce, di far esplodere il linguaggio.
Durante il percorso, proprio come nella vita di tutti i giorni, si può essere bruscamente interrotti da alcuni singoli individui: per rispondere affermativamente o negativamente a delle domande che determinano la continuità o meno della performance (La sfinge); per provare ad aiutare qualcuno che mostra e legge un cartello in una lingua incomprensibile (Il messaggero); infine, per essere avvicinati da qualcun altro che tiene in pugno un piccolo oggetto d’oro che fa vedere per qualche istante (Il piccolo oggetto “a”).
Il Padiglione 9A del Mattatoio ospita, invece, Segunda Vez (Seconda volta), film del 2018. Il titolo è tratto dall’omonimo racconto del 1977 di Julio Cortázar sulle conseguenze del trauma delle sparizioni in Argentina. Attraverso un montaggio di riprese di situazioni apparentemente diverse, García traccia una narrazione fatta di ripetizioni e suggestioni che parte dalla figura di Oscar Masotta, rappresentante di spicco dell’avanguardia artistica argentina. Le idee di Masotta sugli happening danno lo spunto all’artista spagnola di rimetterli in scena e filmarli. Questi, montati ad altre riprese, formano una costellazione apparentemente senza un senso concreto ma che rinvia al clima di forte tensione e snervante e incerta attesa durante la dittatura argentina.
È proprio attraverso la ricerca ossessiva di risposte certe e definitive che si incappa con più probabilità in un labirinto di follia. “Conosco un labirinto che è una linea retta” è un riferimento al racconto di Borges Tlön, Uqbar, Orbis Tertius contenuto nella raccolta Ficciones (Finzioni). Ma tra il reale e la finzione si pensa mai al reale lacaniano, al puro accadere del fuori senso?