LUIGI MENEGHELLI: Perché sabotare il testo sacro del nostro vivere civile, come suggerisci in una tua recente mostra?
Emilio Isgrò: Il sabotaggio non viene da me, ma da chi, in cinquant’anni di vita repub-blicana, ha sistematicamente disatteso quei princìpi della Carta fondamentale che ora vorrebbe addirittura abrogare. Io mi limito a rappresentare una cancellazione in atto.
LM: Non c’è il rischio di portare disordine dissacrando visivamente ciò che viene dissacrato quotidianamente dalla nostra politica?
EI: Non è questa la mia intenzione. Mi sforzo semplicemente, come artista, di mettere i miei connazionali davanti al rischio che tutti stiamo correndo, senza curarmi minimamente di abbellire il degrado e l’orrore.
LM: Il tuo può essere letto come un intervento omeopatico, cioè il tentativo di impiegare la cancellatura al fine di combattere il “depauperamento” che la nostra Costituzione subisce nella realtà di tutti i giorni?
EI: Non c’è dubbio che la cancellazione è anche questo: un gesto omeopatico, e forse anche un vaccino, una forma di terapia preventiva, e la gente lo comprende perfettamente al di là degli schieramenti politici. Evocare il pericolo, tuttavia, non significa arrendersi all’ineluttabile, ma apprestare le difese per evitare il peggio. Cosa, per fortuna, che gli italiani sanno fare benissimo nei momenti di maggiore difficoltà.
LM: Si potrebbe definire il tuo gesto come una sorta di pointing duchampiano, per indicare che cosa sta accadendo alla nostra storia, alla nostra cultura, alla nostra civiltà?
EI: La tua è una domanda inquietante, giacché da sempre la funzione dell’arte è soprattutto quella di segnalare il clima di un’epoca, di una civiltà o di una cultura. E dunque la tua domanda può significare che per te l’arte contemporanea, così a ridosso della cronaca modaiola, si è di fatto distaccata dalla Storia, dalla civiltà e dalla cultura. Il che mi impensierisce non poco. Perché nessuno ha il coraggio di dirci che cosa sia diventata l’arte, a parte il mormorio globale di insoddisfazione che è tipico delle dittature, mentre apparentemente viviamo in società democratiche. Anch’io faccio fatica a capire.
LM: Il tuo impegno quasi certosino nello stendere decisi tratti d’inchiostro, invece che rendere più austere le pagine di un libro, le carica di un’atmosfera piena di frammenti e di semi visivi. E allora, quello che potrebbe essere un atto puramente eversivo, si tramuta anche in atto estetico, in (ri)creazione…
EI: L’atto puramente eversivo non mi interessa. Roba da provocatori televisivi. Preferisco il gesto rivoluzionario che penetra lentamente ma è irreversibile.
LM: La tua operazione può essere avvicinata a quella di T.S. Eliot, che ne La terra desolata si proponeva di puntellare con alcuni frammenti le rovine del mondo: frammenti intesi come disiecta membra che si ricongiungono al momento della resurrezione, rivestite non di carne ma di interpretazioni?
EI: Conosco bene il testo di Eliot. Magnifico. Eppure oggi i frammenti non bastano più, e non c’è più niente da puntellare. Bisogna semplicemente ricostruire un mondo abitabile. Ripartendo da zero e possibilmente evitando altre tragedie come le tirannidi del Novecento o la Seconda guerra mondiale. Basta sangue, basta miseria. Con la cattiva politica non si esce da questa situazione, né con la sola economia, specialmente se questa è di natura finanziaria. Forse possiamo uscirne con una cultura rifondata che sappia fare dell’arte il suo più sensibile strumento di conoscenza.
LM: Nel tuo lavoro c’è la ricerca di una perduta sacralità della parola (sacralità perduta nell’abitudine e nella vacuità dell’uso) che sembra spuntare isolata tra i neri, portando con sé una tensione straniante?
EI: Il termine “sacralità” mi spaventa, lo trovo un po’ eccessivo. Mentre sono d’accordo con te quando trovi che la parola scampata all’onda cancellatoria è una parola più forte e preziosa e che mal si presta alle mercificazioni o ai discorsi ideologici. Insomma, è una parola riscattata dalla chiacchiera e dal silenzio, e può tornare a parlare.
LM: Un po’ come un viaggio nell’inconscio, alla scoperta del “non detto che abita il detto”?
EI: Sì, credo di sì, l’ho dato sempre per sottinteso: un po’ per non addentrarmi troppo in discussioni psicanalitiche per me poco attraenti — forse perché il mio migliore amico è stato proprio uno psicanalista —, un po’ per lasciare il necessario spazio di movimento al pubblico e alla critica.
LM: La cancellatura non è più da collocare nell’ordine della negazione, ma in quello dell’affermazione di nuovi significati. Nel tuo lavoro non c’è più la dimensione negativa delle avanguardie, ma il suo rovesciamento in positività. Come possono convivere queste due dimensioni antitetiche?
EI: Convivono grazie a un gesto puramente creativo: è questa la novità da me introdotta. Prendi le Avanguardie storiche. Certo, uno come Brecht demoliva con il suo teatro la morale borghese, ma poi doveva farsi marxista per trovare quella via di scampo che la sua stessa opera, in sé, non gli concedeva. E così altri diventavano cattolici o fascisti per puntellare con un fattore esterno all’opera — la religione, l’ideologia — le rovine da loro stessi provocate o comunque rappresentate. Io, con la cancellatura, ho contestualmente risolto il problema nell’opera stessa, senza bisogno del soccorso del Papa o di Stalin. Perché la cancellatura è prima di tutto un gesto estetico che solo accidentalmente (e successivamente) si tramuta in una posizione etica”.
LM: Treccani, Divina Commedia, Enciclopedia Britannica, Costituzione italiana: tutti testi che fanno parte di un sapere popolare diffuso. È una scelta orientata a sintonizzarti sulla cultura di massa per indagarne i meccanismi facendone deflagrare le valenze simboliche?
EI: Quando avevo vent’anni pensavo che le masse mi somigliassero e che io stesso somigliassi alle masse. Parlavo a me stesso per parlare al popolo, e per questo mi servivo dei luoghi comuni della grande cultura come la Treccani, l’Enciclopedia Britannica o la Divina Commedia. Ma poi le cose si complicarono, perché anche in Italia venne meno quella cultura liberal-comunista-cattolica che funzionava da tessuto connettivo per tutto il paese. Mi accorsi, con disperazione, che la cultura di massa era quella del Grande Fratello, e che potevo votare a sinistra finché volevo, ma non c’era niente da fare, ero davvero un artista “difficile”, come tanti mi rimproveravano. Sì, un nemico del popolo — di questo popolo —, e oggi ne vado fiero. Anche il popolo, d’altra parte, comincia ad apprezzare…
LM: Nelle tue opere la parola non è più negata ma quasi epigraficamente esaltata (“Viva il Re”, “Viva il Popolo”, ecc.). Assistiamo a un cambiamento di rotta? Oppure la riduzione a un messaggio scarno, essenziale, povero — un messaggio ottenuto attraverso l’utilizzo di un pulviscolo di tratti-formiche — è un’ulteriore contestazione dei media e del loro impiego?
EI: Nella mia opera non è facile distinguere tra la scrittura e la sua cancellazione. Perché, nell’uno come nell’altro caso, si tratta pur sempre di scrittura. Tanto è vero che, oltre a tutte le cancellazioni che tu hai citato, ho scritto più o meno negli stessi anni parecchi romanzi, libri di poesia e testi per il teatro. Quanto alla comunicazione di massa, invece, mi posi il problema quando ero più giovane, se non altro perché da giovane facevo la professione del giornalista e non potevo ignorare la cosa. Ma allora i campi erano nettamente separati: da un lato i giornali e la televisione, dall’altro l’arte con tutti i suoi riti. Mentre oggi l’arte è diventata, grazie ai musei e a un collezionismo capillarmente diffuso, lo strumento di comunicazione di massa per eccellenza, il più potente e insidioso. Più di Internet e della televisione. Cosicché, per contestare la comunicazione di massa, dovrei cominciare dall’arte stessa. Ma io la mia parte l’ho già fatta, in questo senso, ed è giusto che ci pensino gli artisti più giovani, se hanno testa e coraggio.
LM: Talvolta il tuo discorso pare farsi più diretto, decisamente critico nei confronti di una società che ha abbassato le armi, smettendo di vedere, pensare, capire. Possiamo definirlo un intervento ironicamente politico?
EI: Credo che con questa domanda tu ti sia dato da solo la risposta. In realtà, l’arte è oggi l’unico modo per fare politica nel senso più alto del termine. Ma è tenuta in catene e nessuno se ne accorge.
LM: Le forme figurali intitolate “Logge” (cancellate anch’esse dal bianco e, dunque, doppiamente negate) non rappresentano forse un modo di visualizzare dei poteri nascosti, insondabili, ma profondamente inquinanti? Magari non prendi partito, come affermi tu stesso, ma certamente non ti tiri indietro. Non sei un Goya che mostra i “Disastri”, ma il tuo lavoro “in levare” può essere più inquietante, perché si ferma all’allarme senza definire il nemico (anche perché il nemico è l’intero sistema).
EI: Vedi, io evito di prendere partito non per paura o per prudenza, ma perché credo in quelle che un tempo si chiamavano “coscienze”. È a queste che spero di parlare. Agli uomini presi uno per uno, con le loro debolezze e tutte le loro contraddizioni. È lì che si gioca la partita finale. Parlando nell’orecchio agli uomini. Prendendoli per mano, se necessario.