Riccardo Previdi: Recentemente ho presentato la mia application per il Premio New York. Il progetto che ho proposto nasce da un lavoro di Ettore Sottsass, Bacterio, un pattern decorativo realizzato verso la fine degli anni Settanta per una ditta di laminati. In polemica con i dogmi della progettazione di stampo funzionalista, Sottsass reintroduce — non senza una buona dose di ironia — la decorazione. Osservando i tuoi nuovi lavori, quelli in cui stampi su foulard di seta le composizioni geometriche del gruppo Memphis, mi sembra che anche tu ti stia interessando al tema della decorazione e che questo avvenga puntando lo sguardo su un certo modo di concepire il design, l’architettura e la moda, tipico della ricerca di Sottsass e, più in generale, degli anni Ottanta. Come mai?
Eva Berendes: È divertente, non sapevo che quel particolare decoro per laminati si chiamasse Bacterio, ma naturalmente ho capito subito a cosa ti stavi riferendo. La superficie è come popolata da una sorta di pattern irrequieto che, noncurante della forma dell’oggetto, si estende fino a ricoprirlo. Questo è proprio uno degli aspetti che mi interessa di Memphis e di altri gruppi dello stesso periodo: il costante conflitto tra superfi cie e forma, tra pittura e scultura; l’immaginare simultaneamente due o più mondi, realtà che altrimenti percepiremmo come separate e a sé stanti. Emblematico in questo senso è il caso della poltrona Proust di Alessandro Mendini. Pensare la poltrona come un’immagine e un’immagine come una poltrona, in modo molto diretto, quasi banale; trovo che sia estremamente liberatorio, anche perché ho sempre creduto che non si potesse fare, ma alla fine funziona. Forse proprio perché è tutt’altro che naif. È come se ci trovassimo davanti a un ostacolo che, anche dopo numerosi tentativi, non riusciamo a superare.
RP: Quando abbiamo cominciato a lavorare, le avanguardie storiche e la loro fiducia nella modernità erano di grande stimolo per noi. Non c’era molto spazio per l’ironia, l’edonismo e il cinismo postmoderni. Eppure, adesso ci ritroviamo entrambi a riflettere sul periodo storico che maggiormente si è scontrato con le idee del modernismo. Perché?
EB: Nel XXI secolo relazionarsi alla modernità e al Modernismo significa anche domandarsi quale sia oggi la forma dell’astrazione, come utilizzarla e che significato attribuire agli elementi che la compongono. È questo che sta alla base di tanti nostri lavori. Guardare al lavoro del gruppo Memphis non contraddice l’interesse che ho nutrito in passato, per esempio, verso le avanguardie russe, perché questo interesse non è mai stato alimentato dai contenuti politico/utopici né tantomeno dallo stile. A interessarmi sono piuttosto l’assurdità, la fragilità, l’immediatezza e il fatto che forse ogni tanto si possa perfino cascare nell’ingenuità. Queste sono qualità che si materializzano concretamente in un oggetto. Per questo è più facile trovarle nell’arte piuttosto che nelle ideologie. Non è così anche per te? Oppure quando ti confronti con la modernità, fai riferimento al suo contenuto politico? Credi che la formula “forma = funzione” sia ancora valida e che per il bene della società, così come auspicava l’artista-ingegnere costruttivista, sia preferibile un’arte funzionale scevra dell’espressività dell’individuo?
RP: Sì e no. Anche io trovo nelle forme molte risposte. Con la pura forma è più difficile entrare in conflitto, c’è sempre qualcosa di non detto, da scoprire. Nonostante ciò, ho sempre preso in considerazione seriamente le motivazioni che vi stanno dietro. Anche limitando l’analisi al secolo scorso, ci si può accorgere di come ogni decennio abbia contraddetto il precedente. È difficile, probabilmente sbagliato, cercare di affermare un modello. Quando ho cominciato a lavorare, ero molto sensibile al problema della funzione. Per molto tempo ho cercato di capire se fosse possibile applicare all’arte i valori etici e politici del Modernismo. In questo momento, il mio modo di guardare alle esperienze postmoderne è dovuto principalmente alla pregnanza che le considerazioni fatte in quel periodo hanno in relazione all’oggi. Nel progetto per il Premio New York, dodici serie di poster in edizione mensile si sarebbero dovute succedere per le strade di New York. Sul primo poster, una riproduzione 1:1 del Bacterio di Sottsass, sui successivi undici il progressivo ed esponenziale ingrandimento dei bacilli, fino al punto in cui, nell’ultimo poster, il bianco della carta sarebbe stato completamente coperto dal nero dell’inchiostro. In un certo senso il mio progetto si confronta con il problema della decorazione e con la sua negazione. Questo è il mio modo di avvicinarmi alle fonti da cui attingo: saccheggiando con entusiasmo e mantenendo un certo distacco. Credi che questo nostro ritorno ai materiali e all’estetica degli anni Ottanta altro non sia che una moda passeggera, e che a breve ci ritroveremo tutti a tornare sui nostri passi? Oppure pensi che ci sia qualcosa di più profondo ad animarci?
EB: Per me la domanda non si pone in modo così lineare. I miei lavori si muovono sempre in un campo in continua evoluzione e soggetto a varie influenze. Le nuove suggestioni non si sovrappongono alle precedenti annullandole. Nel mio caso, l’attenzione al discorso postmoderno segue una logica interna all’evoluzione del mio lavoro, ne è una naturale conseguenza. Questo interesse è cresciuto negli ultimi anni ed è incredibile quanto tempo ci sia voluto affinché emergesse. In effetti, tutto ciò è chiaro solo negli ultimi lavori, per esempio in quelli che ho presentato a Francoforte (presso la Galerie Jacky Strenz) e forse anche nei paraventi presentati da Sommer & Kohl a Berlino. Sicuramente per alcuni questa assimilazione ha a che fare anche con la moda, con lo Zeitgeist; è un modo per partecipare al proprio tempo e per instaurare, attraverso il lavoro, un dialogo con il contesto. Non credo sia poi così importante stabilire se una cosa è di moda oppure no, ma piuttosto individuare quale potenziale una moda porta con sé e in che modo i singoli artisti riescono a trasformarlo. Da dove viene il tuo interesse? Pensi che sia in qualche modo infl uenzato dalla moda? Forse abbiamo raggiunto un punto in comune nella nostra ricerca: attraverso un cambiamento — o un diverso bilanciamento del lavoro — anche le domande devono diventare più precise, o forse vanno solo formulate diversamente. Se in passato ci siamo interessati al Modernismo, allora forse il postmoderno è semplicemente un passo logico. Oppure per te si manifesta più come una sorta di confl itto? Una volta mi hai raccontato che, essendo cresciuto in Italia negli anni Ottanta e avendo vissuto questi fenomeni da vicino, hai finito per nutrire una certa antipatia per Memphis & Co. È vero?
RP: Lo spirito del tempo, il costume e la moda sono sempre stati importanti per me. Se non altro per quanto riguarda l’apparente contenuto. Ho sempre considerato i miei lavori come degli acquari (qualche anno fa si sarebbe detto “piattaforme”). Confesso di credere ancora negli ideali della modernità. Vedo il postmoderno, con tutte le sue declinazioni contemporanee, come un vaccino. Credo ci aiuti a ricordare che il progetto e la pianificazione da soli non bastano e che l’essere umano è anche irrazionale. Il rischio però è quello di dimenticarsi degli altri. Abbandonarsi al piacere più totale può essere pericoloso e anacronistico, se si considera che a differenza degli anni Ottanta questo non è un periodo di opulenza bensì di carestia. Con Memphis nello specifico non ho mai avuto particolari problemi, ma nella Milano in cui sono cresciuto l’approccio ludico si è spesso rivelato un espediente per evitare di affrontare i problemi. Questo alla lunga ci ha portato a diventare cinici, a relativizzare e accettare tutto. Forse, pure il nostro Presidente del Consiglio.