Prima viene l’uomo poi il sistema, anticamente era così. Oggi è la società a produrre e l’uomo a consumare. Ognuno può criticare, violentare, demistificare e proporre riforme, deve rimanere però nel sistema, non gli è permesso di essere libero. Creato un oggetto, vi si accompagna. Il sistema ordina così. L’aspettativa non può essere frustrata, acquisita una parte; l’uomo, sino alla morte, deve continuare a recitare. Ogni suo gesto deve essere assolutamente coerente con il suo atteggiamento passato e deve anticipare il futuro. Uscire dal sistema vuol dire rivoluzione. Così l’artista, novello giullare, soddisfa i palati colti.
Sono passati quasi tre decenni da quando l’artista ha rinunciato al dovere di creare. L’appropriazione di immagini dalla società dei consumi e il ritorno dell’espressionismo hanno spadroneggiato negli anni Ottanta, mentre gli anni Novanta si sono divisi per lo più tra il crudo realismo degli YBA e le desiderabili utopie dell’Estetica Relazionale. In un caso il rischio era di diventare cinici, nell’altro populisti. Questo decennio è stato poi seguito da una generazione di artisti cresciuti sotto l’ombra di Jeff Koons e Martin Kippenberger, la cui attività primaria non è mai stata creare o produrre: distribuzione e dispersione, questi sono gli obiettivi principali. “L’etica diventa auto-regolamento e auto-controllo. Dove sta l’etica al di là della convenienza, del mettersi a posto e della mancanza di un vero risultato? Auto-monitoraggio?”: queste le profetiche parole di Merlin Carpenter pubblicate nel testo The Tail That Wags the Dog [La coda che fa scodinzolare il cane, ndr].
Comunque, nel bene o nel male, questi tempi sono finiti. Non vediamo più l’arte passata come le carte di credito. Questa è la morte della dematerializzazione: siamo finalmente tornati alle basi, a sognare qualcosa di unico e magico. “Form Follows Function”: la forma segue la funzione e non la finzione (Fiction) come invece diceva il titolo di una mostra portata a Rivoli qualche anno fa. L’aura tornerà dalla “persona” all’opera. Questa è la fine di un sistema di produzione di gadget e l’inizio di una costellazione di talismani. Finalmente un termine che viene dalla storia dell’arte (Le Talisman di Paul Sérusier) e non dal marketing.
Niente più collaborazioni, niente più performance fini a se stesse e soprattutto niente più white cube: spazi asettici dove qualsiasi tipo di oggetto può acquistare qualche tipo di valore. Questa è la fine dell’arte da cassonetto. E poiché oggi Arte significa solo concettualismo esasperato, dobbiamo raffinarci e sostituire Arte con Fare Arte.
Rimedio a questa situazione è un gruppo di dodici artisti che vivono e lavorano a New York. Visitando i loro studi — sì, studi, non ci sono computer in giro questa volta —, li immagino come artigiani contemporanei. Epicentro di questo gruppo è Guild & Greyshkul, uno spazio gestito da artisti ma anche una galleria commerciale e, più precisamente, il luogo di incontro di questa comunità. I fondatori di Guild & Greyshkul, Sara VanDerBeek, Johannes VanDerBeek e Anya Kielar, hanno lavorato su questi temi da sempre. “Gli istinti di VanDerBeek sono quelli della collezionista, della catalogatrice, dell’archivista e della custode di immagini; il compulsivo desiderio di salvare rappresentazioni di un passato, altrimenti lasciato da parte, che rende il tempo tangibile” (Anne Ellegood).
Confermando l’interesse per il collage in senso ampio, come del resto la sorella Sara e il padre Stan VanDerBeek — ma anche Francesca DiMattio, Ernesto Caivano e Ryan Johnson —, le sculture monumentali di Johannes, fatte con carta pesta composta da copie del Times e del National Geographic, permettono di avere, secondo le parole dell’artista stesso: “Anioni sconnessi fra immagini disparate, creando un assurdo scenario, come se il tutto fosse stato fatto da un apprendista di affreschi romani in preda a una crisi di nervi”.
Utilizzando tecniche storiche, Kielar descrive i suoi attraenti fregi e rilievi come “corpi viventi fatti dalle cose della vita quotidiana, cose che uso e colleziono e che gettano un’ombra su una più specifica rappresentazione della femminilità”.
La rappresentazione di rovine provenienti da un passato in continua digestione è messa in scena dai raffinati inchiostri su carta di Ernesto Caivano. Il suo lavoro può essere considerato un DJ set il cui fine è mettere in luce la tradizione dell’Art & Craft “iniettando” Hokusai, illustrazioni medioevali e fumetti all’interno di una contemporaneità bric-à-brac.
Il corpo usato come oggetto tridimensionale è al centro del lavoro di Mariah Robertson e Jamie Isenstein. Posizionandosi al confine tra sicurezza e ironia, Robertson utilizza la carne come espediente per sperimentare nuove tecniche fotografiche. Un pericoloso matrimonio tra Man Ray e il Bagaglino. Con la stessa ironia, Isenstein trasforma il suo corpo in un oggetto; in altre parole, il desiderio di allungare il tempo, un tentativo di immortalità come diceva De Dominicis.
Le pratiche di Garth Weiser e Francesca DiMattio sono complementari ridefinizioni del formalismo pittorico. Uno scontro tra astrazione e figurazione. Gli acrilici su tela di Weiser sono schematici e precisi. E infatti ogni pezzo costruisce un’enciclopedia di schemi e motivi, di linee e spazi. Talvolta eseguiti utilizzando dipinti scartati da Weiser, il lavoro di DiMattio “parla liberamente sia della scuola di pittura londinese di Francis Bacon e Frank Auerbach sia delle più intime nature morte di Chardin e Morandi” (Jeanne Greenberg Rohatyn).
Lavorando con la scultura, Halsey Rodman e Ryan Johnson propongono una peculiare rivisitazione di questo stagionato medium. “Il lavoro di Halsey certe volte sembra disgiunto e oscuro […] la sua arte ti permette di raggiungere il super naturale, la scienza, il rituale della mostra e perfino l’aldilà” (Jerry Saltz); in un modo piuttosto simile, Johnson è ossessionato dalle rovine di varie epoche — Egitto, Etruria e Secessione Americana — che vengono messe insieme tecnicamente e concettualmente, e trasformate in bellissimi e delicati totem pittorici o, in altri casi, in melancolie che avrebbero fatto felice persino Dürer.
Arte applicata e memoria collettiva in tutte le sue forme. Ohad Meromi e Lisi Raskin, protagonisti di vari dibattiti durante gli anni passati insieme alla Columbia University, condividono molti interessi. Tra gli altri, la comune necessità di avere un alter ego (Joshua Simon per Meromi e Herr Doktor Wolfgang Hauptman II per Raskin), come del resto l’attenzione per ogni singolo aspetto della loro pratica, incluse le pubblicazioni come Who Owns the World? (Meromi) e Thought Crimes (Raskin). Con risultati tanto simili quanto complementari, Meromi e Raskin scavano nelle loro radici (rispettivamente Israele e Stati Uniti), proponendo interpretazioni filosofiche di casi sociologici e portando a comprendere il genere umano tramite l’analisi della metropolitana (Raskin) e del Kibbutz (Meromi).
Di recente il mio amico art advisor Rob Teeters mi ha confermato che questo atteggiamento è ormai comune a molti artisti: Amy Granat, Matt Keegan, Richard Aldrich, Carol Bove, Dana Schutz, Steven Claydon, Ry Rocklen (e la precedente Black Dragon Society), Aaron Curry, Thomas Houseago, Sterling Ruby, Djordje Ozbolt, Mark Barrow, Ruby Neri, ma anche Karla Black, Lorna Macintyre, Latifa Echakhch, Pierluigi Calignano, Alessandro Roma, Riccardo Beretta, Cleo Fariselli, Alice Mandelli, Alice Tomaselli. Questo testo nel suo farsi è già lacunoso. L’arte, infatti, si sta già facendo.