“Thus waves come in pairs” [Le onde vengono a due a due] è il verso di un’enigmatica poesia di Etel Adnan ma anche l’adagio conclusivo di una lunga conversazione1 sul Mediterraneo avvenuta nel 2021 tra l’artista libanese recentemente scomparsa e la sua connazionale, collega e compagna di vita, Simone Fattal. Benché risulti difficile riconoscere loro un significato univoco, queste poche parole hanno la capacità di evocare con forza immagini reali o moti interiori: sicuramente permettono di visualizzare le fattezze di un qualsiasi ambiente umido – mare, lago, fiume o laguna che sia –, consentono di immaginare il suo inarrestabile fluire e perfino di sentire il rumore delle increspature che lo attraversano o lo stato d’animo di chi lo contempla.
Da quando è diventato il titolo della mostra a cura di Barbara Casavecchia, però, il verso di Adnan richiama sopra ogni altra cosa un’alleanza. Sicuramente quella tra le artiste e gli artisti che sono ospitati a Ocean Space – lo spazio veneziano della Fondazione TBA21 –, ma anche quella che si richiede a qualsiasi entità umana e non-umana che voglia abitare il Mediterraneo. Infatti, grazie a un dialogo tra le “coppie di onde” rappresentate da Simone Fattal (simbolicamente accostata a Etel Adnan) e Petrit Halilaj/Álvaro Urbano, la mostra permette di sperimentare un ecosistema di simbiosi corporee e affettive grazie a cui viene sorpassata qualsiasi forma di gerarchia o binarismo – di genere, identità, politica, e specie. L’installazione di Simone Fattal, ad esempio, si ispira al verso di una poesia di Charles Baudelaire – “Homme libre, toujours tu chériras la mer!” – in cui il mare (la mer) è una figura femminile potente e tenebrosa che nutre l’uomo con discrezione e generosità. Superando i canoni adottati dalla maggior parte delle lingue mondiali che declinano il sostantivo al maschile, l’artista si rivolge a quest’entità con pronomi femminili e la immagina sempre presente e disponibile per l’umanità, “although we have polluted her waters an killed the fish”2. Le sculture di Fattal disposte nello spazio espositivo sono una testimonianza di questo scambio, diventandone i beneficiari o essendone il risultato.
Due grandi modellati in ceramica grigia sono separati da un mare di mattonelle in vetro dorato. Questa ennesima coppia in mostra rappresenta Máyya e il suo amante Ghaylán, due commercianti leggendari che la poesia araba celebra come gli inventori delle vele. Imitando la forma e la meccanica delle ali di una libellula – e dunque solo grazie all’osservazione della natura – i due poterono migliorare la propria flotta a remi e attraversare agevolmente il mare per smerciare le loro perle. Queste ultime, di colore rosa e soffiate in vetro di murano in scala monumentale, appaiono nello stesso spazio e recano delle iscrizioni tratte dal primo componimento scritto in lingua franca – un mix di arabo, francese, italiano e spagnolo parlato un tempo dai navigatori. A dimostrazione della complessità e del meticciato che ha sempre caratterizzato il bacino del Mediterraneo, il sincretismo linguistico è qui un esempio di quanto il dialogo sia possibile solo nel segno del pluralismo e, viceversa, venga iindebolito da qualsiasi forma di prevaricazione o discriminazione.
Un monito condiviso da Lunar Ensamble for Uprising Seas (2023), la performance di Petrit Halilaj e Álvaro Urbano che si presenta come la rivolta di un ecosistema intero, deciso a contrastare le conseguenze del cambiamento climatico e a rivendicare i propri diritti in una prospettiva interspecista. A questa festosa sommossa partecipano infatti un privilegiato gruppo di umani che sorregge (e suona) una quarantina di sculture in acciaio industriale che rappresentano bizzarre figure anfibie, acquatiche e aeree. Il gruppo si muove sotto una monumentale luna a forma di uovo calata dal soffitto, mentre alcuni dei partecipanti, in un atto di venerazione, vocalizzano una melodia che suona come un inno alla sopravvivenza e alla convivenza.
Gli agitatori della rivolta sono due enormi gabbiani che, impersonati da Halilaj e Urbano, si muovono tra i partecipanti quasi a ritmare e coordinare la parata. Gli animali sono ormai il simbolo di Venezia, città con cui hanno sviluppato un rapporto viscerale per via della loro dipendenza dai rifiuti che essa produce. L’ironia di cui sono portavoce le due grandi mascotte non nasconde dunque una riflessione sui rapporti tra l’umano e l’animale, e sui danni potenzialmente generati da un loro squilibrio. Una riflessione certamente valida a livello globale, che appare fondamentale a Venezia: una città laboratorio dove immaginare nuove forme di convivenza.