Francesca Boenzi: Cosa ti interessa dell’errore?
Federico Maddalozzo: L’errore è un punto di vista inedito, non voluto, che cambia la forma delle cose e talvolta anche il significato. Nella maggior parte dei casi si cede all’errore, si lascia andare. Esiste un margine entro il quale esso è tollerato: nella produzione seriale, per esempio, che ci ha abituato al difetto causato dalla macchina. È questa incongruenza che mi affascina. La sua casualità. Scoprire nuove opzioni grazie a un meccanismo che ha funzionato male.
FB: Ci sono alcuni lavori del 2010 che penso rappresentino un momento significativo nella tua produzione. Sono realizzati con bombolette spray sottoposte alla pressione esercitata da basi scultoree o cinghie. Prima il tuo approccio mi sembrava più analitico nei confronti dell’archiviazione di strutture, di codici standard e del rilevamento di errori. Qui invece la tensione tra una forma di controllo e l’elemento imprevedibile si risolve in maniera “performativa”. Mi interessa che questa dialettica venga innescata con un’azione che sia meno mentale e più fisica. In qualche modo una novità nel tuo lavoro…
FM: In questi lavori la mia azione fa la parte dell’errore, vuole essere di disturbo, fastidiosa e distruttiva, ma non del tutto. Le bombolette spray sono utilizzate come uno standard che determina le coordinate spaziali e temporali dell’azione: la sua durata e la quantità di vernice rilasciata non dipendono da me. Metto in moto un meccanismo. Quando l’azione ha inizio, il “danno” è già fatto e non è più controllabile, bisognerà aspettare che tutto sia finito per capire cosa è successo, anche perché le azioni performative mi interessano soltanto per quello che lasciano.
FB: Nel lavoro Nine Days Away cancelli le prime pagine del New York Times, tante quante riesci con il contenuto di una bomboletta. Questa è ancora una volta mezzo e misura. Da qui inizi una serie di lavori con le prime pagine dei quotidiani in cui agisci in maniera piuttosto radicale rispetto alla relazione tra immagine e informazione. In che modo?
FM: Con Nine Days Away volevo lavorare sull’utilità dell’informazione e su come agisce in un determinato lasso di tempo. È nato come un esperimento. Quando le informazioni sono d’importanza rilevante vengono ripetute a lungo. Quelle non rilevanti invece vengono dimenticate velocemente. Ho cancellato nove giorni consecutivi, nove giorni di Storia. Una volta esposto, il lavoro ha anche dimostrato l’opposto, quelle informazioni tornavano alla memoria nelle persone che avevano vissuto in quel determinato posto e periodo. Ciò accadeva grazie alle fotografie che ancora si intravedevano sotto il colore. La memoria e la struttura dell’informazione sono state poi il punto di partenza per i lavori successivi, su cui sono attualmente concentrato. Qui il mio intervento è più radicale. Elimino l’immagine definitivamente, al suo posto resta il colore predominante della foto originaria abbinato a un punto o a una linea che derivano dalla composizione dell’immagine stessa. La didascalia originale si trasforma in sentenza e si riempie finalmente di tutta la forza del suo significato.
FB: In passato ti sei interessato ad alcune strutture del paesaggio urbano, le recinzioni dei cantieri, per esempio. Ultimamente la tua attenzione è invece rivolta a dettagli come le tracce di tag e graffiti che restano dopo la pulitura di alcune superfici. Più che al prelievo o a una riproduzione della realtà mi sembra tu voglia spostare questi elementi. Cosa ti attrae di questi segni e come pensi di tradurli nel lavoro?
FM: Gli infissi delle vetrine nascono come elementi portanti, hanno una funzione strutturale, diventano però superfici nel momento in cui vengono “taggate”. C’è un ciclico tentativo di pulitura con il proposito di ristabilire la loro funzione originaria, tentativi di restauro senza troppo impegno che creano un gioco perpetuo di fallimenti, da cui sono estremamente affascinato. In questi lavori la scansione cromatica e la scala 1:1 dei soggetti sono gli unici elementi che si mantengo fedeli alla realtà, ma gli infissi di porte e finestre si smaterializzano, si trasformano, costretti a cambiare la loro funzionalità. Esistono solo in funzione della traccia di colore che devono sostenere.
FB: In che modo questi lavori hanno a che fare con una tua riflessione sulla pittura?
FM: I motivi che mi hanno portato alla realizzazione degli ultimi progetti rendono inevitabile una riflessione sulla pittura, che nonostante io tenti di controllare e raffreddare è comunque presente nei miei lavori. Il procedimento è simile all’avvicinamento delle strutture architettoniche nei confronti della scultura, nei lavori precedenti.