Bagnate da una luce impeccabile e scandite in un’articolazione di tempi controllata e rigorosa, le opere di Francesca Grilli mostrano un luogo degli eventi specifico: di norma si tratta di uno spazio performativo in cui misure, proporzioni e numeri non sono immediatamente chiari o distinguibili e dove gli interpreti sono corpi e figure della comunicazione. Credo che 194.9 MHz (2006) sia ancora l’opera più fertile per provare a tracciare il campo d’azione della ricerca di Francesca Grilli. Le prime quattro inquadrature del video indicano lo spazio e le regole del gioco, la quinta i suoi protagonisti. Le immagini iniziali sono di brani di paesaggio. Il cielo è scuro e coperto di nuvole e non ci sono altri riferimenti oltre a rocce e pendii erbosi. Nessuna presenza umana ad abitare una strana landa che ricorda frammenti da La région centrale (1970) di Michael Snow. La quinta inquadratura precisa i protagonisti: l’artista stessa e un’antenna, posta sulle sue spalle. Anzi, un’antenna e il corpo dell’artista. Nel frattempo però le proporzioni non si chiariscono. Come in Picnic ad Hanging Rock (Peter Weir, 1975), l’atmosfera è tesa e il rapporto fra figura umana e paesaggio non è mai davvero evidente fino in fondo. Ed ecco il suono: prima una musica, poi una voce maschile fuori campo man mano cantilenante, sovrapponendosi e ripetendosi mai uguale a se stessa. Il video prosegue e, incalzato dalla tensione narrativa costruita dalla musica, si conclude quando, dopo un’ascesa sotto un cielo sempre più cupo e incombente, l’artista raggiunge una vetta. E con gesto ben noto ma non retorico, vi pianta l’antenna. Francesca Grilli lavora sulla comunicazione umana in tutte le sue forme e modalità. Che sia evocata visivamente attraverso la Lingua Italiana dei Segni (il linguaggio gestuale adottato dalla comunità dei sordomuti) nelle performance La seconda conversazione e La terza conversazione (2008), come voice over nei video 194.9 MHz e Gordon (2007) o messa in scena come un’onda elettromagnetica piuttosto esoterica in Moth (2009), la questione è piuttosto evidente.
Andrea Lissoni: Cosa ne pensi?
Francesca Grilli: Direi che mi piace instaurare rapporti d’alleanza. Mi interessano le persone, le loro storie, non gli individui, ma le relazioni tra le persone. Tra il visibile e l’ultraterreno. Tra il limite e il miracolo. La voglia di far comunicare, di mettere insieme, è forte, prepotente, ma evanescente. Risponde a un bisogno. 194.9 MHz segna il momento di un grande cambiamento personale, ma anche di una presa di coscienza del mio linguaggio. Da lì in poi, il racconto, la narrazione diventa un elemento fondamentale nei miei video; la complessità della storia è associata a un atto simbolico e rituale. Inizialmente non correlati, l’azione e il racconto audio culminano entrambi in un punto di connessione che coincide con la fine del video.
AL: Come descriveresti Moth?
FG: È una performance, un lavoro sulla luce. Volevo creare lo stesso stupore e la medesima meraviglia che giochi di magia e illusionismo producevano all’inizio del secolo scorso. La dimensione magica ed esoterica ha grande spazio e persino l’uso della tecnologia diventa incantesimo e meraviglia. Cercavo qualcuno che avesse un’esperienza forte, diretta, fisica con la luce. Qualcuno la cui vita fosse imprescindibile da essa, una falena che si ammacca le ali contro una lampada. Così ho invitato una cantante albina a prendere parte alla performance, dandole però il controllo totale sulla luce. Lei canta in una stanza buia con davanti a sé un tubo metallico attraversato da un gas infuocato, con la voce modula e visualizza le onde sonore. Moth mischia la stregoneria con l’esperimento scientifico, la fisica pura con l’illusionismo, la rivalsa con l’evocazione. Il mio desiderio è ancora quello di far assistere al miracolo.
AL: La mia sensazione è che le tue opere trasudino umori e tensioni biografiche personali immerse in un clima enigmatico e sospeso. Il punto è però che quegli stessi umori, e con loro il clima enigmatico, finiscono poi per scivolare sensualmente verso il pubblico…
FG: Non so… se intendi la sensualità come seduzione, credo che non sia un elemento essenziale. Penso però che desiderio e segreto siano due elementi che voglio trasmettere al pubblico. Mi pare che osservando i miei lavori, si possa avere l’impressione che siano abitati dalla volontà di passare oltre, dall’urgenza di scongiurare il limite e lasciare lo spazio a una trasformazione. Nella performance La terza conversazione, invito un cantante sordo a interpretare una vibrazione sonora. Canta usando la lingua dei segni. Poco importa se lo spettatore capisce cosa lui stia dicendo. Il punto è il segreto. L’azione e lo spazio diventano coordinate silenziose per decifrare, anche parzialmente, quello che sta accadendo.
AL: Come nella migliore tradizione ESP, stiamo parlando di porte e di fessure percettive… Direi che nella performance Arriverà e ci coglierà di sorpresa (2006-2007) — due settantacinquenni che ballano per tre ore in un ambiente spalancato e quindi “proiettato” sull’immagine di un dancing vuoto — la questione è letteralmente chiamata ed evocata.
FG: È vero anche però che le performance hanno un impatto diretto, immediato e più lineare. Sono finestre che si aprono su mondi più o meno privati e permettono di sbirciare segreti, misteri, doni dall’alto e momenti. Arriverà e ci coglierà di sorpresa mette in scena un tentativo di esorcizzare il tempo e con esso la morte, accostando così due differenti condizioni: il decadimento fisico che si contrappone alla passione. Mi ha sempre affascinato il ruolo socialmente riconosciuto che veniva affidato in alcune comunità a determinate persone privilegiate di poter dialogare con l’aldilà.
AL: E quali sono stati i tuoi riferimenti?
FG: Il sovrannaturale e il bestiale de La bête di Walerian Borowczyk; The Elephant Man di David Lynch; Watership Down di Martin Rosen; l’apparizione e la trasposizione in Persona di Ingmar Bergman; il rito nei documentari anni Cinquanta di Vittorio De Seta e l’opera di Maya Deren; gioia e rivoluzione nelle fotografie di Luigi Ghirri; il folk e l’architettura vocale di Demetrio Stratos.
AL: Come tratti il suono? Mi pare un elemento essenziale nella tua ricerca…
FG: Il suono ha sempre a che fare con il tempo. Per me è un veicolo che, con velocità diverse di opera in opera, conduce lo spettatore a una forma di comprensione possibile del lavoro. Se consideriamo il tempo come una ninna nanna, o il suono delle onde radio, o una voce off, è sempre una questione di spazio temporale e di movimento verso un messaggio. Nella mia ricerca il suono ha preso la forma della narrazione orale, è diventato muto, si è persino trasformato in elemento magico e mi ha anche fatto ballare. Ma non lo considero un’unica forma musicale come il mio linguaggio. Il suono è una presenza importante e multiforme. Va dalla cultura pop alla più raffinata ricerca sperimentale. Può essere di scarsa qualità o sopraffino. Mi sono avvalsa della collaborazione di musicisti, ma ho anche affrontato personalmente la parte sonora. Credo che sia il mio strumento per comunicare direttamente con l’inconscio.