Viktor Misiano: Guardando le tue foto, fissando i paesaggi sullo sfondo o le persone, mi sono reso conto che niente mi sorprende. Ciò che vedo mi appare familiare e riconoscibile. Questo potrebbe facilmente dipendere dal fatto che l’Asia Centrale e il Caucaso sono regioni che ho visitato molte volte e dove difficilmente potrei incontrare qualcosa di veramente sconosciuto. Tuttavia, credo che la vera spiegazione sia un’altra. La scomparsa dell’ignoto è una delle più evidenti conseguenze di più di due decenni di globalizzazione. La mia ipotesi è che il “dislocamento” a cui fa riferimento nel titolo del tuo lavoro è scaturito non dall’incapacità di familiarizzare con i nuovi territori ma, al contrario, dall’incapacità di alienarsi da essi.
Giada Ripa: Dalla mia prospettiva, il “dislocamento” comincia quando la tua curiosità inizia a essere illimitata tanto quanto le infinite possibilità che il mondo d’oggi ci offre. Il dislocamento è ciò che noi viviamo quotidianamente con il mondo esterno, con l’incognito. “Dislocamento” è ciò che ci rende incerti, per poi generare intorno a noi nuove energie. Che si tratti di incapacità a familiarizzare con i nuovi territori o, al contrario, di incapacità di alienarsi da essi, alla fine il risultato è lo stesso. Le origini ci identificano, e la globalizzazione in cui siamo intrappolati ha portato molti di noi a confondere le nostre convinzioni e certezze e a cercare costantemente di imporre le proprie origini. Lo stupore o la tensione psicologica che può scaturire dall’incontro con nuovi territori può al contempo ampliare la propria visione e offuscare pericolosamente il suo reale obiettivo.
VM: L’orientalismo è solitamente associato alla dominazione occidentale. Gli europei hanno esplorato l’Est, concettualizzandolo e imponendo la propria idea di Oriente. Ma questa affermazione è ancora valida? Siamo ancora capaci di imporre il nostro predominio culturale occidentale? Forse ciò che ci interessa non è il mondo esterno ma la nostra coscienza? E il “dislocamento” è una diagnosi che tu dai a te stesso e non al mondo?
GR: Nella serie “Falling Icons”, realizzata durante viaggi in Oriente, nel cuore dell’Asia Centrale, tra il Caucaso e il Mar Caspio, lungo la Via della Seta, una donna errante appare nell’atto di cadere, incapace di mantenere l’equilibrio in questo mondo così pieno di simboli; questa donna viaggia in luoghi solitari e posti sconosciuti, li attraversa e interagisce con essi. Questi luoghi, a volte inospitali, hanno lunghe storie da raccontare, ricche di implicazioni culturali e geopolitiche. Ho scelto di collocare queste immagini in luoghi di transizione, in posti ancora alla ricerca di una specifica identità e in paesi dove la tolleranza è un tema delicato. Questa donna potrebbe essere vista come una figura allegorica di fragilità, l’immagine archetipica di un individuo che affronta la gravità del mondo, una donna contemporanea che cerca di trovare le proprie radici confrontandosi con nuovi territori. Alla fine, il processo cambia e la riporta indietro, alle proprie consapevolezze. Il mio lavoro cominciava investigando le minorità religiose lungo la ex Via della Seta — ora conosciuta come la via del Petrolio — e trovata dalle grandi potenze. La ricerca delle origini delle persone mi ha lentamente portato a riflettere sulla mia identità. E questo processo di apprendimento e conoscenza dell’ignoto, senza, a mio parere, un’idea predefinita di specifiche aspettative quando confronto me stessa con questi nuovi luoghi, mi ha portato a capire che non importa quanto lontano uno vada, perché tutto ritorna alla propria coscienza e consapevolezza di se stessi. Nel dislocamento di questi territori che sono passati attraverso un’intensa trasformazione è riflesso il dislocamento della nostra identità, fragile come essi. Una sorta di circolo vizioso in cui un dialogo tra una donna o un uomo e le terre che li circondano diventa il punto di partenza del viaggio di ritorno alla propria terra d’origine.