Pubblicato originariamente su Flash Art Italia n. 303 giugno 2012
Angelo Capasso: Hypothalamic Brainstorming, del 1962, è l’opera che tu, su invito di Carolyn Christov-Bakargiev, hai scelto per partecipare a Documenta 13. È un potenziale punto di partenza per la lettura del tuo lavoro. L’ipotalamo è una struttura del sistema nervoso centrale a cui si associano, tra altre, l’attività di controllo delle emozioni, degli stati d’animo e dell’umore, nonché del comportamento sessuale. Perché proprio quest’opera pensi possa essere di attualità per Documenta?
Gianfranco Baruchello: Ho scelto un’opera del 1962 nella quale figuravano immagini e parole che non sono scomparse dal mio linguaggio e che si collegano con quanto io ancora penso sulla funzione immaginante della mente. Una questione centrale al mio lavoro di allora era il “cervello”, la mente appunto. Forse sarebbe più giusto dire che sin dall’inizio mi sono posto degli interrogativi riguardo alle funzioni del pensare. I processi della mente (la percezione, l’immaginazione, la produzione di ipotesi) richiedevano l’abbandono degli stereotipi, il rovesciamento delle logiche convenzionali, la chiusura del sistema causa-effetto. Un nuovo orizzonte esplorabile doveva ricomprendere ciò che era rimasto escluso dalle logiche tradizionali. Si potevano ripensare i processi della mente riconsiderando l’errore, l’arbitrarietà, l’analogo, l’ambiguità, le eccentricità o tutti gli eccessi fisici e mentali. Tutti questi termini/concetti sono presenti in questa opera nella quale si vedono anche piccoli cortei contraddistinti da bandiere a cui davo singoli colori diversi (o rosso o giallo o bianco). Il progetto di una diversa mente possibile nasceva in quegli anni per me all’incrocio tra storia e ricerca di un linguaggio personale, tra coscienza politica e consapevolezza del trauma con cui la mia generazione, figlia della notte e della sconfitta, riemergeva.
AC: Puoi darmi una descrizione più precisa dell’opera?
GB: Si parte sulla destra da una immagine schematica di un cervello diviso in due emisferi arbitrari: uno positivo e uno negativo, non in opposizione, ma come elementi di una contraddizione risolvibile. C’è anche una freccia che indica una direzione, verso sinistra, ma subito dopo gli orientamenti si complicano e molteplici sono gli itinerari possibili da intraprendere. Come seguire le linee continue o tratteggiate che conducono nelle diverse zone del disegno, dipende dalla scelta di chi guarda. Si entra e si esce da confini che sono tali soltanto in apparenza: c’è sempre un’apertura per un passaggio, uno spazio in between da attraversare. Ci sono anche delle aeree che funzionano da luoghi di sintesi ipotetiche dei frammenti disseminati su questa superficie: l’area dell’insieme, per esempio. Considero quest’opera un grande disegno realizzato su carta non di particolare pregio, come si potrebbe usare per un rapido appunto di idee, montata poi su tela e telaio di legno. Ma da questa mappa mentale è derivato poi concettualmente il lavoro futuro: il progetto di azioni e di oggetti, di spazi e piccoli sistemi (“per contrastare i grandi sistemi dell’ideologia e della politica”, dicevo allora), l’allestimento di archivi di idee o di immagini.
AC: Parli spesso di possibile. Puoi darmene una definizione?
GB: Il possibile era prima di tutto il pensabile. Era il momento percettivo allo stato nascente alla ricerca del Nome e dell’Immagine e della loro attribuzione. Il possibile nasceva anche attraverso il recupero dell’indistinto, dell’incerto, dell’errore, dell’analogo, del desiderio, rimettendo tutto questo in gioco per immaginare un processo della mente che ripartisse dai vuoti, dalle funzioni secondarie. Per questo parlavo dell’ipotalamo come terminale del flusso energetico animale che ricominciava a salire dalle viscere. Tutto questo era da collocare al di là della sofferenza e della consapevolezza del dolore che la storia ci aveva fatto conoscere. Sono cose che penso ancora oggi. Cosa era dunque per me nel 1962 il “possibile” se non una condizione mentale “sans le moindre grain d’étique, d’esthétique et de métaphisique” come avremmo letto nelle Notes di Marcel Duchamp pubblicate nel 1980?
AC: Si è recentemente conclusa una tua grande mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, a cura di Achille Bonito Oliva Una sezione della mostra era dedicata alla questione del “ridurre” o della scala ridotta. Nel 1968, in uno dei tuoi testi riportati in catalogo, sostieni che una tua opera era leggibile come “un nastro ampex per uno speciale videoscope a molte dimensioni e molte, se esistessero, velocità diverse. Se per decodificare l’ampex ci vuole il video scope” per una tua opera, dicevi ancora “basta il cervello”. Puoi chiarire meglio questa tua affermazione?
GB: L’incontro con un mio disegno, con un quadro, un progetto o un oggetto equivale a un invito per una lettura di più significanti disposti in strati nel tentativo di costruire dei rapporti tra i singoli elementi. Una galassia di frammenti anche verbali offre una visione molteplice all’interno della quale anche il mondo onirico ha una sua collocazione. In questi diversi livelli di immagini e parole ci sono molti riferimenti alla realtà della grande cronaca, della politica, della storia. È possibile che appaia anche un taglio più o meno ironico riferito alle scienze cognitive “per sentito dire”. Parte di questo discorso complesso sconfina in chiaro nella progettazione di qualcosa che potrebbe essere definito di critica alla politica (all’economia politica) e alle istituzioni che la rappresentano non soltanto in Italia.
AC: Puoi citarmi uno dei progetti cui ti riferisci?
GB: Penso subito al Multipurpose Object un meccanismo tra l’ironico e il dissacrante del militarismo di cui il Vietnam era la scena più tragica del momento. L’oggetto accompagnato da un testo che ne chiariva la funzione fu offerto al Dipartimento della Difesa americano nel 1966 prefigurando l’esercizio della mano su un’arma che in realtà non aveva né canna né calcio ma era costituito per emettere rumori allusivi. L’operazione fu completata dalla risposta del Pentagono che ringraziava per l’offerta anche se non rivestiva alcun interesse per gli Stati Uniti. Questo spirito era presente in altri oggetti quali armi finte, manifesti da affiggere in strada ma anche in azioni di lunga durata come Artiflex e Agricola Cornelia S.p.A.
AC: Agricola Cornelia S.p.A. (1973) è stato, come si legge in How to Imagine, il tuo libro pubblicato a New York, un “modo di rispondere alla Land Art”. Quella data, il 1973, pone Agricola Cornelia tra Spiral Jetty di Robert Smithson e il 1974 di Splitting di Gordon Matta-Clark. Il secondo ha alcune affinità con l’Agricola Cornelia, soprattutto quando dici che è stata un modo per sottrarre territorio alla speculazione edilizia, e Splitting è stato un modo per porre in crisi il mito americano della casa come dimora famigliare, ambiente domestico, e anche come investimento edilizio. Cos’era per te quel luogo?
GB: Agricola Cornelia è stato un progetto che collegava l’agricoltura all’arte attraverso un confronto tra i valori di scambio e d’uso dei loro prodotti rispettivi. Per sette anni, fino al 1981, ho coltivato terre occupate, ho condotto l’esperienza della zootecnia su scala domestica, della produzione del latte e della gestione del gregge di pecore. Questa operazione complessa cercava di capire le dinamiche che costruiscono il “costo” di un’opera d’arte e di un prodotto agricolo, in relazione ai meccanismi del mercato, del successo, dell’esposizione per quel che riguardava l’arte, e del consumo, del bisogno, della vendita per il prodotto agricolo.
AC: Negli stessi luoghi dove avevi realizzato Agricola Cornelia nel 1998 è nata la Fondazione Baruchello.
GB: Questa operazione meriterebbe uno spazio a sé. La Fondazione è nata dalla donazione dei miei beni a un’istituzione dedicata alla sperimentazione sia delle idee che dei progetti per l’arte: una specie di think thank del contemporaneo.
AC: Una delle tue più recenti installazioni, presentata alla mostra “Camere” da RAM a Roma, si intitola Psicogim: hai progettato una palestra “per l’allenamento della mente” allestita con oggetti, fotografie e attrezzi ginnici. Ritroviamo qui l’attenzione ai meccanismi del pensiero già annunciata in Hypothalamic Brainstorming?
GB: Entrando in Psicogim si vede a destra una fotografia della scala dei 186 gradini di Mauthausen mentre viene percorsa dai prigionieri ciascuno di loro curvo sotto il carico di una pesante pietra; a sinistra invece una panca per appendere oggetti personali. Gli oggetti ginnici sono costituiti da un tappeto mobile, da usare mentre ci si guarda a uno specchio, e da un pesante sacco per pugilato. Tra questi oggetti ho inserito una poltrona per sedere e guardare una serie di foto prese dalla cronaca attuale e del passato che mostrano la brutalità del male. Un’altra tabella riunisce una serie di pubblicità di orologi da polso che segnano tutti le dieci e dieci, stereotipo pubblicitario del tempo qui leggibile in chiave ironica. Completano la stanza alcuni libri (Dante e Boccaccio), superfici da sfiorare con le dita, odori e sapori da provare. Un testo, da me scritto, offre un esempio del possibile uso dell’ambiente.