Prima osservazione: ci sarebbero diversi buoni motivi, a guardare i dipinti di molti pittori trenta/quarantenni, italiani e stranieri, per affermare che la pittura astratta sembra invecchiare più in fretta di quella figurativa. Ci sono pittori, ad esempio, la cui figurazione è sfrontata ed esuberante come non si vedeva dai tempi della Transavaguardia, che indicano il futuro retrocedendo dove non sembrava più possibile retrocedere – a prima delle avanguardie, all’Ottocento, alle sproporzioni e ai tagli precinematografici di certa pittura ottocentesca – e lo fanno spinti da un immaginario violentemente pop, che può far dialogare la mitologia e l’iconografia classica con l’illustrazione, i video musicali e le serie tv.
Ci sono invece pittori che dipingono quadri figurativi – si tratta di una figurazione a tratti un po’ esangue, prudente, analitica, metapittorica – e mentre lo fanno sembrano chiedersi che senso ha dipingere figure nel tempo in cui viviamo (avendo alle spalle una storia così lunga). Le figure che questi pittori dipingono non sono mai troppo assertive, e mentre si rivelano, si delineano sulla superficie, paiono interrogare l’osservatore sul potenziale delle immagini dipinte.
Ci sono infine pittori che possono dipingere quadri figurativi ma anche quadri astratti, per i quali figurazione e astrazione sono due categorie porose, e che sanno far derivare le figure (in modo quasi automatico, dimesso, svagato) dall’astrazione (o viceversa), magari dando l’impressione che la figura risponda a un impulso inevitabile e sia solo un dato momentaneo, una forma che da lì a pochi istanti verrà ricacciata nel magma astratto dal quale sembra provenire.
Gianni Politi, a cui questo testo è dedicato, non mi sembra appartenere a nessuna di queste categorie.
Seconda osservazione: ogni volta che le parlo e le scrivo le parole figurazione e astrazione mi sembrano avere un retrogusto un po’ obsoleto – sarà per come alcuni grandi artisti (Richter su tutti) hanno dato l’impressione di riuscire a tradurle in categorie permeabili, perfino intercambiabili – eppure restano indispensabili per descrivere il lavoro dei pittori. Ad esempio Politi è uno di quegli artisti che ti spingono a usarle entrambe, e al contempo a interpretarle in modo agile, smussandone la rigidità.
Tuttavia mi chiedo: che cos’è Politi, un pittore figurativo? Un pittore astratto? O entrambe le cose? Gianni Politi è uno strano pittore. Da anni continua a sviluppare una serie di ritratti (o una serie su un unico ritratto) e al contempo un lavoro astratto, e queste due polarità della sua poetica, come dimostra l’ultima personale da Lorcan O’Neill a Roma, “In the Belly of the Serpent” (2019) – dove la serie sul ritratto fronteggiava quella astratta in entrambi gli ambienti della galleria – procedono parallelamente, dando l’impressione di potersi sfiorare (in alcuni momenti), e (sempre) rilanciare reciprocamente. Politi è un pittore figurativo, ma per reazione a un impulso interiore.
La serie sul ritratto, che procede ininterrottamente dal 2012, è infatti un tentativo di dipingere un unico volto, quello di un padre distante, che non si realizza mai, e proprio da questa incompiutezza trae una spinta al movimento, alla sua evoluzione. Ogni ritratto di questa serie nasce da una specie di dissolvenza: tra un’immagine interiore e un dipinto settecentesco, Studio di uomo con la barba (1770) di Gaetano Gandolfi, nel quale l’artista crede di riconoscere, per vaghi cenni, il volto del padre. Mentre dipinge questi ritratti, dunque, Politi guarda a un’immagine, ma non può copiarla integralmente perché ne sta inseguendo un’altra (così in un certo senso faceva anche Bacon: guardava foto di animali mentre dipingeva ritratti di persone, come se afferrare la verità di un volto fosse stato possibile, per lui, solo pensando a qualcos’altro).
Nessun ritratto di Politi, dicevamo, può compiersi del tutto: i dipinti possono dare l’impressione di interrompersi bruscamente, bloccarsi in un contorno, in un vuoto centrale, o in una superficie che vibra per via di un instabile rapporto tra messe a fuoco e lacune; possono virare verso l’astrazione, verso una partitura disomogenea di colori vibranti, esangui, discutibili, di segni e macchie che possono rimandare a elementi del reale, a tratti del volto, o somigliare a cancellature e pentimenti. In un capitolo cruciale della bellissima e voluminosa biografia di De Kooning, i due autori, Annayn Swan e Mark Stevens, raccontano della lunga battaglia, e del senso di incombente fallimento, che ha accompagnato la gestazione, durata quasi due anni, di Woman I (1950-1952), un dipinto che segna, per De Kooning, un tentativo di ricomposizione della superficie attorno alla figura.
La storia del ritratto, a pensarci bene, è costellata di grandi battaglie con la figura del volto della persona ritratta. Anche i volti di Politi, con i loro contorni instabili, si inseriscono in questo solco: sono campi di battaglia, ma possono risolversi in forma agile e spensierata. È quello che avviene nella serie presentata all’interno di “In the Belly of the Serpent”, con dipinti più grandi di quelli degli esordi (è questo uno degli aspetti che mi attraggono di più nel lavoro di Politi, la sua capacità di tradurre in una grande dimensione una processualità fragile) e il volto che può diventare maschera, dall’aspetto spettrale e al contempo volutamente pop.
La serie sul ritratto del padre è dunque il racconto di una rincorsa inesauribile a un’immagine che fugge. Ma sottende anche una riflessione sull’impossibilità di approdare a una forma stabile o a un quadro ultimo, definitivo, un’ossessione tutta novecentesca da cui le ultime generazioni di pittori sembrano essersi liberati. Inoltre la serie sul ritratto è un lavoro su un senso di incombente, reiterato fallimento, dal quale idealmente si generano tutti gli altri lavori che Politi realizza. “L’unica cosa che posso dipingere, mi ha detto una volta l’artista, è il volto di mio padre”.
In modo un po’ manicheo potrei allora affermare che i dipinti astratti sono l’altra parte, la parte più in luce (per la frequenza con cui l’artista espone questi dipinti) del lavoro di Politi. Che sono la parte più in luce nonostante nascano dai resti di un’attività parzialmente clandestina, quella di un pittore figurativo che non sa dipingere nient’altro che il volto di suo padre, o il volto dell’uomo con la barba di Gaetano Gandolfi. Questi resti possono includere: tele distrutte; lacerti di tele e carte piene di macchie e pennellate che hanno inseguito una figura senza mai afferrarla del tutto; immagini cancellate, o “sbiancate”; frammenti di telai, tavole o cornici; oggetti che in forma disgregata, disorganica, richiamano la presenza di un’immagine dipinta e di un quadro con le sue articolazioni materiali (dai resti derivano anche le sculture, che traducono in forme nuove quei frammenti).
I dipinti astratti nascono dunque da questi resti che si depositano nello studio, un grande “studio archivio”, ma prima ancora uno “studio pavimento” (è facile vedere sul pavimento dello studio di Gianni cumuli di tele, in attesa di essere ripiegate e archiviate), il luogo di una vita bassa, verso cui tendono le cadute e i fallimenti della pittura. A questo studio come pavimento Politi ha guardato con insistenza per alcuni anni, fino alla decisione di esporre il suo pavimento trapiantandolo meticolosamente dal suo studio a un prato di rovine del foro Palatino, nel 2016, all’interno della mostra “Par tibi, Roma nihil”. Fu probabilmente un gesto liberatorio.
Dal pavimento, attraverso uno scrupoloso lavoro di ricostruzione della superficie i resti si ricompongono sulla tela grezza, o su uno sfondo monocromatico; un collage che simula e amplifica l’effetto di macchie, pennellate, brani di pittura gestuale, e che confonde la percezione della temporalità che il dipinto configura.
Dunque: i quadri astratti di Politi sono proprio astratti, eppure continuano a gravitare, idealmente, attorno alle figure. Non solo perché possono essere il risultato di un infruttuoso desiderio di figura (la serie di dipinti presentata nella mostra alla Nomas Foundation a Roma, “Mountaintop Waterdrop” nel 2015, nasceva, ad esempio, dal tentativo di realizzare alcune nature morte); ma anche perché accostati alle figure sono in grado di accenderle, di porsi rispetto a esse come una specie di contraltare energetico. Era così in una mostra che Politi ha realizzato nel 2014 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, “Tra queste sale (Malandrino)”, dove una serie di dipinti astratti erano accostati ad alcuni paesaggi ottocenteschi, vicino ai quali potevano sembrare come prolungamenti, estensioni, oppure semplicemente antefatti, “quadri tavolozza”. Ed è così anche nell’ultima personale da Lorcan O’ Neill, dove toni e colori delle due serie si rilanciano reciprocamente, da una parte e dall’altra delle stanze della galleria.
Più nessun dubbio allora: nonostante la “parte astratta” – e per come tutto il suo lavoro si muove attorno a un’unica immagine, quella di un volto – Gianni Politi è un pittore figurativo.