Morire è solo non essere visto
—Fernando Pessoa
Gino De Dominicis è stato un artista straordinario, nel senso dell’altissimo livello della sua opera, ma anche nel senso della sua consapevole “eccentricità” rispetto al mondo dell’arte.
A qualunque costo ha sempre pensato, praticato e dimostrato la più alta concezione del ruolo dell’artista. Ha sempre sostenuto, contro tutto e contro tutti se occorreva, anche a dispetto di un sistema dell’arte a volte debole, a volte masochista e disposto ad aprirsi, a ritrarsi e a cedere il passo in ogni direzione, la centralità assoluta dell’arte. In questo senso ha avuto un grande coraggio, il coraggio di essere solo. Nella pittura l’artista assolutamente credeva e riteneva di avere trovato un linguaggio che fosse alta espressione di un’opera profondamente unitaria. Tenendo presente l’estrema attenzione per ogni dettaglio propria di De Dominicis, ci si pone ora il problema di conciliare due forti esigenze: il rispetto per il suo pensiero e la sua volontà e il desiderio di salvaguardare la sua eccezionale opera, che peraltro gode di splendida autonomia.
Oggi siamo circondati da un eccesso di immagini, mentre le eccelse opere di Gino De Dominicis bisogna andare a cercarle e forse avere la fortuna di vederne alcune: ne vale la pena, restituiscono sempre più di ogni aspettativa. Non ho mai assistito a una “contestazione” dell’attuale sistema dell’arte così radicale come la sua, ma senza provocazioni, senza ideologismi, dall’interno dell’opera e dei suoi fondamenti. Una critica serrata, colpo su colpo. Non ho mai conosciuto nessuno che avesse come lui una fede totale, assoluta, incrollabile nella centralità dell’opera d’arte.
Ossimori e Omeopatie
Gino De Dominicis sin dall’inizio ha disegnato, dipinto e realizzato opere tridimensionali: aveva già esposto nel ’64 un centinaio di quadri e disegni. Poi, nel momento in cui le gallerie rifiutavano la pittura, gradualmente riuscirà a reinserire il linguaggio pittorico e grafico.
Ma, al di là del continuo riemergere del problema della pittura, la vera avventura dell’artista inizia con una mostra sorprendentemente nitida e sicura nel 1969 nel garage di via Cesare Beccaria a Roma, sede dell’Attico di Fabio Sargentini, galleria diventata in quegli anni un punto di riferimento. Ed è lo stesso Sargentini a marcare l’assoluta novità di De Dominicis rispetto al dettato di Pino Pascali e Jannis Kounellis, artisti guida della galleria fino a quel momento. L’aurea asta in bilico, intitolata Equilibrio, è libera e sola, sospesa nello spazio: appare come una sorta di linea generatrice dell’intera opera. Intorno, il Cubo invisibile e il Cilindro invisibile: le loro basi, tracciate a terra, disegnano un cerchio e un quadrato e forse questi due solidi sono scelti proprio per le loro differenti basi e per la dialettica cerchio/quadrato, che tornerà nel Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno a un sasso che cade nell’acqua. Un gancio sembra tenere sospeso un secchio pieno d’acqua, come se l’acqua fosse solida e potesse esser tirata su. Anche un chiodo, analogia minima dell’asta, è sospeso a una parete. E poi la pietra — Aspettativa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del materiale — e la palla — Palla di gomma (caduta da 2 metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo. La complessità di questi lavori, pur composti da due semplici elementi, mi sembra risiedere in un doppio — e, in un certo senso, contraddittorio — statuto: da una parte la messa in trasparenza dell’invisibile movimento, virtuale nella palla, un auspicio nella pietra; dall’altra il potere del linguaggio dell’arte di fissare l’attimo di immobilità. Il tutto suggellato da un manifesto funebre con l’annuncio della propria morte: la data, novembre 1969, corrisponde a quella della mostra.
Il lavoro di De Dominicis è stato erroneamente considerato da alcuni “concettuale”. Invece, Mozzarella in carrozza (presentata all’Attico nella collettiva del ’70 e destinata a suscitare scandalo) formalizza l’opposizione: le parole erano materializzate, visualizzate. Era inoltre la dimostrazione che la mozzarella rimaneva tale pur dimorando nel lussuoso contenitore, ironizzando sugli epigoni di Marcel Duchamp che ancora oggi credono che il contenitore, galleria o museo, abbia il potere di trasmutare in opera d’arte qualunque oggetto lì esposto.
Con la sua opera, De Dominicis mette a nudo questo meccanismo preconcetto dimostrandone l’inefficacia: anche nella mostra da Gian Enzo Sperone a Roma nell’82 il water resterà tale e non subirà alcuna miracolosa trasformazione per la sua vicinanza al quadro. Si tratta di operazioni “omeopatiche”, come le definì lo stesso artista su Flash Art nell’estate 19961, che criticano, doppiandole, le metodologie in voga. Un’altra operazione di questo tipo sarà Noi siamo le puntine: scrivendo questa frase a terra con le puntine stesse, questa volta l’artista doppia ironicamente la tautologia minimalista, riproducendo anche la disposizione spaziale rasoterra di alcune opere della Minimal Art.
Di nuovo all’Attico, il 4 aprile 1970, lo Zodiaco presenta la concretizzazione fisica dei segni astrali disposti a semicerchio. Un’espressione artistica stupefacente, come ricorda l’amico Vettor Pisani, cui fa eco una nota di Achille Bonito Oliva che ne sottolinea lo scarto rispetto alla concezione tradizionale della performance. In quest’opera l’artista era certamente più interessato all’aspetto cosmico che a quello simbolico: gli elementi dello Zodiaco, oggetti o esseri viventi, arrivano da uno spazio siderale, da un’infinita extraterrestre distanza.
Nel novembre dello stesso anno, De Dominicis presenta a Milano da Franco Toselli nello spazio sotterraneo di via Borgonuovo l’asta, la palla, la pietra e il cilindro invisibile, ma anche l’oggetto radioattivo (in una nicchia), i due identici vasetti (prima forma di Opera ubiqua) e un gattino con un cartellino che annuncia il postulato della Seconda Soluzione d’Immortalità.
Il 28 dicembre il critico Maurizio Calvesi cura all’Attico la mostra “Fine dell’alchimia”: nel garage di via Beccaria, Kounellis presenta la donna bendata con le mosche che si posano sulla pancia; Vettor Pisani la tartaruga che procede lenta portando sul dorso un peso dorato in mezzo a gusci di tartaruga; Gino De Dominicis lo scheletro con i pattini a rotelle, un’asta in bilico sul dito e il cane al guinzaglio (Il tempo, lo sbaglio, lo spazio), opera di cui Gabriele Guercio — tra gli altri — descrive con attenzione le dinamiche sottese.
Per De Dominicis lo spazio dell’arte è quello della verticalità, lo sbaglio è la volontà di spostarsi orizzontalmente e ancor più il desiderio di imprimere un’accelerazione attraverso i pattini.
D’IO è il gioco di parole (Di me stesso/Dio) che fa da titolo a una mostra impalpabile, fatta solo di suono, che sembra quasi anticipare molte delle tendenze più recenti (24 aprile 1971). Si tratta di una risata forte e prolungata che riecheggia nella galleria vuota: è anche questa un’opera invisibile.
Lo sguardo dall’interno
Del 1972 è la sala che provocò un grande scandalo alla Biennale di Venezia, con l’opera Seconda Soluzione d’Immortalità (l’Universo è immobile). Simone Carella2, a Venezia come assistente di Gino De Dominicis, ricorda che “Gino considerava la sala una summa, ma non aritmetica, delle cose che aveva fatto sino ad allora”. E ancora racconta: “Sul tetto c’erano lucernai che erano stati oscurati, la prima cosa che Gino fa è chiedere, imponendosi nella discussione, di togliere l’oscuramento ai lucernai per avere la luce del giorno, così comincia l’avventura con se stesso in quella sala. La luce naturale, la porta che si apre sull’esterno: l’opera doveva essere a contatto con l’universo. Poi mi chiede di cercare una persona che deve rappresentare questa seconda soluzione d’immortalità, un giovane che abbia conservato l’aria di un bambino”3. L’immortalità è possibile bloccando il tempo. Questa è la medesima istanza di altri lavori di De Dominicis, come il gatto presentato con un cartellino-didascalia all’Attico o come Che cosa c’entra la morte? Al di là della sottile distinzione tra immortalità ed eternità, quello che interessa l’artista è “la fissità del momento del presente, la percezione dell’attimo” (Carella).
La persona prescelta, Paolo Rosa, incarna una soluzione d’immortalità. Andando contro la gravità si va contro la mortalità. Infatti ai due lati opposti della sala, su due seggiolini posti molto in alto, le figure de Il Giovane (impersonato dallo stesso Simone Carella) e Il Vecchio. Secondo le parole di Carella, la Palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo è un elemento artificiale, ripieno di aria e allude a un tentativo di volo, la pietra (Aspettativa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del materiale) invece è un elemento naturale legato alla terra in attesa di un movimento a essa aderente; oltre a questi oggetti davanti a Paolo Rosa stava il Cubo invisibile. È evidente che la sala è un “territorio magico”4 dove regna una circolarità dello sguardo, tanto è vero che nella (foto ricordo) appare una spettatrice nell’atto di inforcare un paio di occhiali. Di “punto di vista interno all’opera” ha parlato lo stesso artista. La sala stessa è costruita come interno, situazione non comunicabile. “La Seconda Soluzione aspira a creare una situazione in cui tutto è e resta com’è” scrive giustamente Gabriele Guercio. Perché questo è il potere che De Dominicis attribuisce alle arti visive rispetto agli altri linguaggi.
Odissea da fermo
Sul tema dell’immortalità e del superamento dell’entropia Gino De Dominicis torna il 18 dicembre 1972, in occasione degli “Incontri Internazionali d’Arte” a Palazzo Taverna.
In una delle versioni della Lettera sull’Immortalità scrive: “Non potendo intervenire direttamente su se stesso per fermare il corso inesorabile del proprio ‘tempo interno’ e allungare la propria vita, l’uomo ha inventato dei mezzi che lo rendessero più veloce: intervenendo così sullo spazio, indirettamente è riuscito a intervenire sul tempo. Questa operazione potrebbe essere giustificata però solo se lo spazio fosse finito e la nostra fantasia limitata. Purtroppo invece è solo un palliativo e un gravissimo errore”. Queste parole, oltre a costituire la migliore spiegazione per Il tempo, lo sbaglio, lo spazio, sono anche una buona introduzione a un altro lavoro realizzato all’Attico: la Poltrona per un viaggio nello spazio. Secondo la testimonianza di Sargentini, l’artista modifica una poltrona del tipo di quelle da barbiere aggiungendo una sorta di attacchi da sci ai piedi e apponendo un cartellino con una dicitura che fa riferimento al doppio movimento, di rotazione e di rivoluzione, della Terra. Chi si siede, attraverso la lettura del cartellino, subisce la suggestione di intraprendere un viaggio nello spazio, viaggio che effettivamente stiamo compiendo legati alle evoluzioni terrestri.
Nel 1975, alla Galleria Lucrezia De Domizio a Pescara, l’ingresso è interdetto al pubblico: “Mostra riservata agli animali”. Gli spettatori spiano dall’uscio e sulla soglia si affacciano un bue, un asino, un’oca, una gallina… Lo ricorda Vettor Pisani, che riferisce anche che gli animali erano stati individuati dall’artista come esseri che non hanno coscienza della morte (in questo senso il lavoro era già, in nuce, nel gattino che circolava nel garage dell’Attico corredato di didascalia). È evidente che De Dominicis, negli animali come già nel giovane Paolo Rosa, è in cerca di modelli alternativi al destino dei mortali, paradigmi dell’immortalità del corpo.
Quasi a voler fermare il tempo, l’artista opera poi una scomparsa e riapparizione nella galleria di Pio Monti a Roma: come ricorda il gallerista romano, si trattò di un vero e proprio ripetersi di due esposizioni identiche, a distanza di un anno l’una dall’altra, che realmente crearono nel visitatore l’assurda sensazione di uno spostamento temporale a ritroso.
Nelle successive mostre alla Galleria Monti nei primi anni Ottanta, l’artista presenta invece Lampadario antientropico e Sbarre violate. “Aveva fatto alcuni quadri che poi aveva distrutto e ne aveva messo i resti in un sacco di plastica poi appeso al soffitto. Invece di fare luce faceva ombra”: l’energia non viene dispersa, dunque non c’è entropia. Sbarre violate è una grata che ha subito una leggera deformazione, reca dunque le tracce di un’evasione, di una presenza che si è trasformata in assenza.
Il 27 gennaio 1979 inaugura a Roma la galleria di Mario Pieroni, con opere di De Dominicis (significativo il titolo Disegno), Kounellis e Ettore Spalletti. In aprile la stessa galleria inaugura “11 statue di G. De Dominicis”: si tratta di uomini invisibili, come già i solidi geometrici, segnalati da ciabatte e cappello di paglia posto ad altezza d’uomo, materiali leggeri, quasi il segno dell’evanescenza e del passaggio all’invisibilità.
Urvasi e le altre
Il pensiero di De Dominicis — come si evince anche da uno scambio di battute con Miriam Mirolla per Rai Radio 2 nel 1994, riguardo al suo rapporto con la figura femminile — era che la donna e l’artista fossero simili per la capacità di creare. Ne parla diffusamente anche Germano Celant, con riferimento a Urvasi e Gilgamesh del 1969: due profili speculari in cui Gino De Dominicis pone l’uno di fronte all’altra il re sumero e la dea indiana della bellezza, creando un corto circuito e un’osmosi tra culture, sensibilità ed energie eterogenee. Un ossimoro, temporale e geografico, è anche il fatto che nel paesaggio situato tra i due profili appaiano, nota Celant, una piramide e un disco volante.
Una contrapposizione culturale, quella tra uomo e donna, che in De Dominicis pone il problema della memoria, della bellezza e quindi della mortalità, come notò Carolyn Christov-Bakargiev su Flash Art, nell’inverno del 19865.
Già all’inizio degli anni Settanta De Dominicis aveva presentato un’opera in cui alle foto de Il Vecchio e Il Giovane aveva contrapposto due foto di una graziosa fanciulla in giovane età. È uno dei segni della superiorità femminile: l’uomo invecchia, corroso dal tempo, la donna abita nel presente della giovinezza.
Contro la fotografia
È cosa nota — come emerge da numerose sue affermazioni — che Gino De Dominicis non amasse la fotografia, e nel corso degli anni avesse sviluppato una vera e propria strategia di resistenza contro di essa. Probabilmente vi percepiva minore energia e intensità rispetto alla pittura. Come sempre ci metteva in guardia, attraverso quanto diceva e scriveva, dalla supina e confortevole accettazione di convenzioni in uso nel sistema dell’arte suggerendone la messa in crisi. Ma soprattutto la vera strategia per sottrarre la propria opera alla tirannia sostitutiva della fotografia si avrà attraverso una mirabile tecnica pittorica tale da sfiorare l’irriproducibilità. Tuttavia, se questa era la tendenza generale del suo pensiero, è anche doveroso ricordare che in diverse occasioni ha permesso di pubblicare immagini fotografiche del suo lavoro. Non si trattava di una regola inderogabile, ma di una difesa ideale dell’opera e del proposito di mettere a nudo e svelare l’identificazione, data come ovvia per abitudine, ma niente affatto scontata, tra l’opera e la sua riproduzione.
Il 27 novembre del 1972, per esempio, De Dominicis si presta al gioco dell’amico fotografo Claudio Abate che capta l’impronta della sagoma di otto artisti attraverso un procedimento di contatto diretto con la superficie sensibile. La foto, insieme a quelle di De Chirico, Kounellis, Mattiacci, Pistoletto, Pisani, Germanà, Acconci, sarà esposta in dicembre agli “Incontri Internazionali d’Arte”. E ancora, nel 1973 Gino De Dominicis è invitato con una sala personale alla mostra “Contemporanea” curata da Achille Bonito Oliva e organizzata dagli “Incontri Internazionali d’Arte” nel parcheggio sotterraneo di Villa Borghese a Roma. Nella sala è presente anche il ritratto fotografico realizzato da Elisabetta Catalano sotto al quale l’artista pone una scritta sul tema dell’identità che inizia così: “Ritratto dal vero di un artista…”. Dunque si tratta di un ritratto (un genere nel quale negli ultimi anni l’artista si cimenterà con la pittura) non solo autorizzato, ma utilizzato addirittura all’interno della propria opera e in varie occasioni.
Va inoltre sottolineato che l’artista ha usato la fotografia per alcuni lavori come (foto ricordo), il Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno a un sasso che cade nell’acqua, la foto della Madonna che ride come statua inesistente (dopo la distruzione dell’opera) e altri. Ogni lavoro sembra scegliersi la sua tecnica e tra queste è ammessa anche la fotografia. Resta tuttavia severo il suo giudizio su non giustificate contaminazioni di linguaggi: come all’epoca aveva ironizzato su certi sconfinamenti allora alla moda, più avanti prenderà le distanze dalle evasioni creative e multimediali.
Il tempo e lo specchio
Un esempio del complesso sistema di relazioni esistente nell’opera di De Dominicis tra lo spazio illusivo della pittura e lo spazio reale dell’ambiente, e contemporaneamente della dialettica tra spazio e tempo, si trova nell’opera presentata nel 1988 alla Galleria Lia Rumma di Napoli, che riprende il suo Specchio che tutto riflette tranne gli esseri viventi (1969, poi distrutto). Secondo la descrizione di Gabriele Guercio, si ricreò nella sala semibuia il trucco dello specchio, posto di fronte a un dipinto, che riflette la sala e lo stesso dipinto, ma non gli spettatori presenti: sorta di messa in scena metaforica della permanenza dei dipinti, immobili, di contro alla transitorietà illusoria ed effimera dell’uomo e delle presenze viventi in genere. Comincia in questo modo a configurarsi la soluzione di De Dominicis al problema dell’immortalità: essa è destino della pittura e non dell’uomo, e potremmo aggiungere dell’opera e non dell’artista. Tutto ciò che è dotato di movimento nello spazio non ha possibilità di permanere nel tempo, l’immobilità dell’opera d’arte invece garantisce durata illimitata. Effimero e illusorio si rivela dunque non lo spazio della pittura, ma quanto reputiamo più reale, noi stessi. I viventi sono condannati alla mortalità dalla loro pulsione al movimento che li spinge a sbagliare, cioè a correre nello spazio, a indossare i pattini. A questo destino si sottrae l’opera d’arte, oggetto vivente perfetto.
Ma c’è stata un’altra opera in cui l’elemento dello specchio è associato al discorso sul tempo. Si tratta dell’orologio in cui i segni del tempo come ore e lancette non compaiono e l’intero quadrante è sostituito da una superficie specchiante. Pensiamo alla serie di orologi realizzata da un altro grande artista italiano: Alighiero Boetti. Le differenze tra i due artisti risulteranno evidenti: Boetti di anno in anno sostituiva alle cifre che indicano le ore quelle che compongono l’anno creando così un metonimico progressivo slittamento che mette in dubbio la certezza stessa della misurazione del tempo. Quella di De Dominicis è una fulminante, lampante metafora speculare: il tempo sei tu che invecchi, siamo noi.
Pictor maximus
La malia di un volto che nasce da gorghi di segni sottili e sapienti. Il fascino di uno sguardo che apre sul mondo esterno e su quello interno: questa può essere l’introduzione all’opera pittorica di Gino De Dominicis. Un sorriso enigmatico, un occhio chiuso e uno aperto sono caratteristiche attribuite a un volto maschile su tela e a un volto femminile su legno che entra con le sue venature nell’opera. Il disegno è un punto cardine nel lavoro di questo artista, che tuttavia non esclude altre forme di espressione. Al disegno e alla pittura si accostano elementi tridimensionali, che a volte riappaiono nelle opere pittoriche: l’asta per esempio torna più volte, anche nella grande tavola dove due volti si sfiorano. Tuttavia il segno di De Dominicis rivela sorprendentemente una mano nata per disegnare. Nelle sue opere, e soprattutto nei disegni, ricorre spesso il volto umano e prevalentemente la figura femminile, ricollegandosi a un tema della tradizione artistica piuttosto in disuso nell’arte contemporanea (come l’artista stesso faceva notare). Nella pittura in cui tanto credeva ha raggiunto risultati quasi inimmaginabili, portando al suo interno, senza bisogno di esterne impalcature concettuali, l’altezza e la densità del suo pensiero, lo spessore mentale. Ha raggiunto la massima complessità e la massima armonia con l’uso, quasi paradossale, di semplici, tradizionali ed essenziali mezzi: la tavola, la tempera, la matita.
Secondo le parole di Paul Valéry “vi è una immensa differenza tra il vedere una cosa senza matita in mano e il vederla mentre la si disegna”. È come se tra l’occhio dell’artista e la sua mano ci fosse un filo invisibile che trasmette le sue vibrazioni sensibili alla superficie sulla quale, come per incanto, un’immagine si configura. Il disegno è la più diretta verifica del tradurre la manualità in forma. Nelle opere di De Dominicis questa verifica è lampante e immediata all’occhio dello spettatore. Le linee portano ancora gli echi della mano e tuttavia assumono un valore formale ben preciso.
Il principio del disegno percorre l’intera opera e può presentarsi anche secondo un rovesciamento positivo-negativo, bianco sul fondo nero. L’aspetto mentale è molto forte in queste opere, quasi una messa in trasparenza del pensiero, un pensiero visivo. Uno dei primi quadri del momento del ritorno alla pittura si intitola Io a Roma e colloca l’artista nel suo scenario naturale, contrassegnato dalla presenza dell’obelisco di Piazza del Popolo. Ma un altro luogo affiora, la Mesopotamia, quella terra tra il Tigri e l’Eufrate che appare tra i profili di Urvasi e Gilgamesh, la strana coppia maschile/femminile che riunisce in un ossimoro echi delle culture sumera e indiana. Insieme, i due profili uno di fronte all’altro, le sagome in controluce, attraversano molte opere di De Dominicis. Molti quadri, come la grande testa, presentano l’accostamento cromatico nero e oro, molto amato dall’artista. Un altro contrappunto cromatico, lo scontro tra il rosso e il nero, è presente in molte opere tra cui si distingue per intensità pittorica un volto diabolico. Le matite su tavola presentano incredibili sorprese, dalle più scarne, come la figura “gobba” (1996-1997), o il volto visto sottinsù — visione parziale di una sfinge dal collo lungo il cui contorno è stato realizzato senza mai staccare la matita — alle più complesse, come la coppia trasfigurata in figura unica del ’91. Tra le matite su tavola appare anche il ghigno di una figuretta dagli occhi strabici e basculanti, un’invenzione formale costruita con grande forza di sintesi. In un quadro di grande delicatezza l’evanescente uomo con il cappello si volge a contemplare infinite lontananze. Il colore viene piegato a una resa straordinaria: grigio su grigio, blu su blu, il raro giallo su giallo e addirittura bianco su bianco. Un vero pezzo di bravura è costituito dalle pochissime opere con le nuvole, tra cui un quadro di grandi dimensioni, di cui l’artista parlava spesso, una pittura che si fa cielo, corporea e incorporea insieme. Ogni quadro è una sfida, risolve un problema. Ogni quadro stupisce.
Il percorso dallo sguardo alla mano non è diretto: il disegno è filtrato dalla memoria e dalla memoria emergono soprattutto figure umane e soprattutto volti. Nelle opere di De Dominicis c’è sempre infatti uno scarto in un particolare della parte più importante: il viso. Il miracolo della pittura è quello di restituire una fisionomia attraverso pochi tratti, segni rapidi, a volte appena accennati, a volte più fitti e leggeri. In alcuni casi lo scarto è costituito dal naso, l’elemento che collega la parte alta e più spirituale del viso a quella bassa, che si allunga a dismisura. Questa deformazione, che è nata disegnando, appare anche nel grande scheletro che giace immobile, iperbole di una figura umana ridotta all’osso, diverso solo per quell’appendice, il naso, che nello scheletro è la parte mancante.
I linguaggi delle arti figurative sono caratterizzati dal rapporto con la materia e l’immobilità, secondo l’artista. De Dominicis, anche quando ha presentato persone vive, le ha presentate immobili. A queste caratteristiche si aggiunge l’assenza di uno svolgimento temporale, che nei primi lavori di De Dominicis si innesta sul tema dell’immortalità e dell’annullamento della dimensione temporale. Così nel lavoro con le foto dell’uomo giovane e vecchio l’arco temporale è reso in un’intuizione simultanea. Analogamente, in un lavoro di molti anni dopo, un disegno su tavola, una coppia regale appare davanti a una città, mentre accanto levita una figura che ha il corpo di bambina e il viso di vecchia. Questa invenzione formale di De Dominicis è un’immagine sintetica, che copre l’intero arco temporale: le forme mute e immobili vivono nella dimensione di un assoluto presente che tutto racchiude, questa è l’essenza della pittura.
Si è molto parlato e scritto a proposito dei riferimenti di De Dominicis al mondo dei sumeri. Questo riferimento, senza dubbio valido ed esplicito, aveva radici nel fatto che la civiltà sumera, precede, anche cronologicamente, tutte le altre, compresa l’egizia e la greca. È l’originarietà a colpire l’artista che spesso ripete la convinzione (suffragata in un certo senso dalla ricerca scientifica) che i sumeri abbiano inventato tutto. È molto interessante notare che l’iconografia di origine sumera si lega in De Dominicis al tema cosmico. Tutte le ricerche scientifiche finalizzate alla conquista dello spazio hanno in definitiva dato corpo all’innato desiderio di librarsi nello spazio, quello del tentativo di volo. In un ciclo di grandi quadri realizzati con l’ancora inedito accostamento di bianco e oro presentati alla Biennale del 1993. De Dominicis ci offre una sublime visione del cosmo prima della nascita stessa del cielo e della terra, un’immagine siderale del mistero delle origini. Solo una remota e complicata epica della creazione di matrice sumera, antecedente alla genesi, può rischiarare (la parola “spiegazione” è fuor di luogo per De Dominicis) il grande quadro biancodorato dove appaiono pianeti e satelliti non esattamente corrispondenti ai nostri. De Dominicis ci ha dato occhi per vedere un altro cosmo, in un altro tempo. In questa infinita dimensione le coordinate spazio-temporali mutano completamente, tanto che si può parlare di anni luce (quelli impiegati dalla luce di una stella già spenta per arrivare a noi), ovvero esprimere un concetto temporale (gli anni) attraverso uno spaziale (la luce). Da una incommensurabile distanza il sistema di astri che poi si trasformerà nel nostro sistema solare si mostra all’artista e a noi come una serie di geometriche circonferenze candide nella luce dorata dell’universo. In questo spazio altro, in un arco di tempo che va dal passato al futuro, un dipinto della serie colloca l’incontro tra la figura femminile e la figura maschile. Ancora un’opera suggerisce la via del ritorno, con un’astronave capace di viaggiare all’interno della macchina del tempo, una struttura che sembra volutamente riecheggiare quella prospettica. Solo che qui la prospettiva è in qualche modo rovesciata, non c’è unità di luogo, tempo e azione, ma una condensazione di passato, presente e futuro. Prospettiva rovesciata è il titolo di una famosa opera di De Dominicis, un quadro-manifesto dove l’esile struttura geometrica permette al gioco dell’occhio che vede ciò che è in primo piano più grande di rovesciarsi nel suo contrario; nella versione piccola l’artista aggiunge l’elemento della figura di spalle che chiude il circuito dello sguardo, come già la spettatrice di (foto ricordo), e dà la misura dell’inversione spaziale e temporale. È la pittura che sola ci fa attraversare lo spazio e il tempo.
Un’opera verticale sembra mostrare una figura nel momento in cui diviene invisibile e la sommità del suo capo diviene una ziggurat. La figura stessa si muta in architettura, come nel caso del volto che si fa scala. La ziggurat stessa è una scala tesa a stabilire un dialogo tra terra e cielo, il trionfo dell’architettura verticale, prototipo della Torre di Babele.
L’appeso
In una delle sue affermazioni sull’arte, Gino De Dominicis marca la differenza e la specificità dell’arte visiva rispetto a tutti gli altri linguaggi artistici. L’artista è sempre stato contrario alla “performance” propriamente detta, che considera un linguaggio teatrale e non dell’arte visiva. Le azioni infatti si realizzano nel movimento e si sviluppano nel tempo. Tranne che in Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi intorno a un sasso che cade nell’acqua e in Tentativo di volo (1970) che costituiscono un filmato, considerato tale dall’artista, De Dominicis non ha mai usato il movimento. È stato anzi il primo a usare persone vive ferme, come nello Zodiaco del 1970, e come nella sala alla Biennale del 1972. L’artista talvolta ha accostato nel suo lavoro presenze esemplari, tridimensionali e immobili, alle opere d’arte. È di nuovo un ossimoro (l’accostamento di fatti di diversa natura, come le cose e i viventi) a produrre differenza creando un corto circuito visivo. Ma in fondo il principale ossimoro di De Dominicis consiste nell’aver usato sia il sistema della presentazione (nelle opere con oggetti e/o persone viventi) che quello della rappresentazione (nella pittura) alternativamente o anche simultaneamente nello stesso periodo o nella stessa mostra.
È anche il caso della mostra alla Galleria La Nuova Pesa nel 1996 (da tredici anni l’artista non esponeva a Roma): nella complessa sala iniziale, un grande quadro (un autoritratto a tempera alto tre metri) è circondato da faretti. La posizione delle luci è ribaltata in quanto è il quadro a illuminare il pubblico. Questo trova riscontro in un’altra frase dell’artista: “È il pubblico che si espone all’opera d’arte”.
Di fronte al quadro pende una inquietante presenza: un impiccato. Ma in realtà il pittore non è morto, l’impiccagione non ha questo potere su di lui, la sua perizia tecnica lo salva. Si tratta infatti di un impiccato-vivo. La forza di gravità doveva essere letale, ma è stata neutralizzata. Su un unico asse si dispongono l’autoritratto-opera d’arte in pittura, una diversa forma di autoritratto nella figura dell’impiccato e un omino d’oro e argento. La piccola figura è posta su una base di fronte all’impiccato. De Dominicis interviene sulla forza di gravità e la ribalta in positivo formalizzando una scultura in equilibrio sulla propria punta sul cristallo.
Il tema formale preesiste in altre immagini di De Dominicis, come per esempio l’asta dorata o gli oggetti sospesi. Nella seconda sala una donna dell’altezza di cinque metri e mezzo è adagiata in una teca e solo il volto, disegnato a matita, è visibile mediante l’apertura di una parte del contenitore. L’ammaliante volto della gigantessa, coricato, è costruito mediante una miriade di segni tra i quali, come per magia, affiora il colore. Inoltre è esposto un disegno su vetro, con un autoritratto in atto di dipingere nel quale l’artista dispone di cinque punti di vista. Sono dunque presenti le due figure tipiche dell’opera di De Dominicis: la donna e l’artista, che già si fronteggiavano nei due profili di Urvasi e Gilgamesh. Gli stessi due soggetti appaiono nella terza sala con un altro piccolo autoritratto su vetro e l’immagine bellissima di una mamma con il bambino. Sopra le loro teste sono sospesi due elementi geometrici luminosi: un cubo in prospettiva rovesciata sulla donna e una sfera sul piccolo.
Questo rigoroso attenersi di Gino De Dominicis a temi fondamentali come quelli della gravità e dell’immortalità corrisponde sul piano delle immagini alla messa in luce di alcune essenziali figure e a livello formale trova analogia nella tensione a raggiungere una pittura estremamente raffinata attraverso pochi e basilari elementi: la tavola, l’uso prevalente dei colori di base e talvolta l’apparente monocromia, la matita, strumenti antichissimi e nuovissimi.
In pieno Kali-yuga
Il Kali-yuga nella filosofia indiana rappresenta un’era calamitosa, prossima al crollo per la totale perdita di valori. Il fatto che abbia posto come titolo alla sua ultima mostra inaugurata il 30 maggio 1998, sei mesi prima della scomparsa, alla Galleria Emilio Mazzoli di Modena “In pieno Kali-yuga” è indicativo del pensiero di De Dominicis riguardo a quanto avviene nella realtà e nell’arte intorno a lui.
Già da parecchi anni l’artista lavorava con Emilio Mazzoli, che definisce la mostra del 1986 la prima “importante” di quadri. Tra questi il gallerista ha scelto di esporre anche i primi “quadri volumetrici”, una serie di opere degli anni Ottanta che in qualche modo coniugano l’opera bidimensionale con quella tridimensionale. In essi il quadro acquisisce profondità, si estroflette, combina differenti qualità spaziali. In un certo senso, questo tipo di lavoro è anticipato da pitture molto materiche e quasi in rilievo, come il piccolo ma denso profilo del 1980. Molte delle opere in mostra, come ricorda Gabriele Guercio, raffiguravano volti o figure con lunghi nasi a forma di cono: in essi qualcuno ha voluto vedere un palese riferimento alla civiltà dei sumeri, certamente plausibile, ma questo elemento del naso è soprattutto una forte invenzione formale. Il contenitore diventa una sorta di piccola architettura abitata da una figura che si fa pittura e scultura al tempo stesso. Le proporzioni tra le parti e il tutto diventano molto importanti.
La mostra, in realtà, è splendente, armonica e non reca traccia degli aspetti negativi del Kali-yuga, anzi sembra quasi un antidoto a un’epoca di decadenza. Vi spicca una bellissima serie di ritratti che con pochi ed essenziali tratti rendono immediatamente riconoscibile la persona rappresentata e dove le deformazioni operate si fanno immediatamente bellezza. Accanto a questi volti, una delle variazioni sul tema della Sfinge a cui stava in quell’anno lavorando, una grande veduta rossa e una natura morta in cui l’artista sperimenta l’uso dell’argento.
L’intenzionale ripresa di generi considerati convenzionali nella storia della pittura, come il ritratto o la natura morta, dimostra come anche questi soggetti, apparentemente tradizionali, possano essere rigenerati da creazione.
La domanda che Nicolas Bourriaud si pone in un testo ripubblicato in queste stesse pagine, come ridonare potere alle immagini “senza sprofondare nell’ideologia dell’aura, squalificata nell’‘epoca della riproducibilità tecnica’?”, trova risposta nell’opera stessa di Gino De Dominicis tesa a ricostituire quell’ineffabile, irriducibile, irrevocabile aura, ma come soluzione dell’arte al problema, posto dalla moderna scienza, dell’entropia, la dispersione di quella energia che l’arte invece concentra e accresce nel dono dell’opera.