Non è difficile a Napoli trovare un’apertura, un varco per scendere nell’altra città, la città sotterranea, attraverso gli strati sedimentati in quasi tre millenni di vicenda urbana. Ma scendere, a Napoli, ha sempre un valore particolare, anche politico, perché alla fine, la città viva, sopra, è a sua volta un fossile, una sorta di imprevedibile conglomerato che sfida il panorama urbano della nostra epoca, uniformato da una testarda smemoratezza che vorrebbe abolire preventivamente, nel suo espandersi indifferente, ogni fondo, ogni memoria, ogni complicazione. Forse è proprio questa possibilità in fondo tanto seducente di dialogare con abissi così poco progrediti nella loro millenaria imperturbabilità ad aver tentato Gregor Schneider, di cui la Fondazione Morra Greco ha ospitato a Napoli una mostra che segna anche l’avvio della sua attività pubblica. Sempre in relazione con l’esperienza fondamentale della Haus ur, il work in progress avviato nel 1985 nella sua casa natale di Rheydt, allegoria di un quotidiano che tenta disperatamente di opporsi all’infiltrazione del caos richiudendosi sulla propria opprimente normalità, la presenza della morte è esplicita sin dal titolo poco convenzionale scelto da Schneider per l’occasione, 26.11.2006, giorno della commemorazione dei defunti nel calendario liturgico luterano. Nel labirinto realizzato nei sotterranei del magnifico e pericolante Palazzo Caracciolo d’Avellino lo spettatore è invitato a intraprendere un viaggio a senso unico, procedendo alla cieca in uno spazio totalmente buio. Con l’aiuto del tatto, accompagnati soltanto dal rumore del proprio passo, ci si inoltra in un budello di 240 metri che termina con un muro cieco, una conclusione brusca, feroce come una morte inattesa. Completamente diversa invece l’atmosfera nella chiesa settecentesca di San Gennaro all’Olmo, nella cui navata è sistemato un grande cilindro verticale di acciaio inossidabile, Cyro-Tank, Phoenix II, un contenitore per corpi umani ispirato alle teorie di un singolare movimento, il “transumanesimo”, che propugna una sorta di fumosa evoluzione tecnologica per la specie umana che condurrà a un’immortalità democraticamente accessibile a tutti, o quasi.
In definitiva, la doppia allegoria di Schneider mostra probabilmente la sua qualità e il suo limite nel volersi misurare direttamente, e proprio in una città come Napoli, con la densità paralizzante del pensiero della fine. Se nel contesto domestico originario la dimensione escatologica è tenuta in equilibrio con la muta banalità quotidiana, nel labirinto nero e nell’asettica ampolla metallica si intuisce invece una volontà programmatica che finisce per risultare prevedibile. Forse la maledizione di Napoli è proprio quella di offrire con troppa generosità il suo luttuoso carnevale: proprio per quel suo strano riso prepotente e sinistro la città risulta inaspettatamente più dura, più impura se possibile, di certo grassa di un eccesso di vita che i dispositivi funebri di Gregor Schneider fanno fatica a comprimere nei loro spazi introversi.