La sofisticazione della narrazione dietro ai lavori di Guglielmo Castelli porta lo sguardo fino a una memoria letteraria e filosofica di chi si trova davanti ad un suo lavoro.
Tra gli innumerevoli carnet di viaggio, che l’artista riempie ossessivamente con schizzi e disegni, una delineazione di spazio “incornicia” sempre i soggetti. Personaggi spesso fiabeschi, mitologici, a volte travestiti da altro, arrivano da esperienze personali dell’artista stesso e dalle sue innumerevoli letture. Non solo, c’è una onesta narrativa che non sembra concludersi mai, una sorta di patto silenzioso tra noi e i personaggi, paesaggi di Castelli. Psiche, fragilità, contraddizione, sensazioni di prevaricazione gli uni verso gli altri, come individui, come delicate entità che provano a sfuggire alla realtà o la scambiano per altro.
Tra le varie pratiche di Castelli, abbiamo ripercorso quella pittorica, più “travagliata e completa”, rivisitando i luoghi della mente in ogni loro sfumatura cromatica e concettuale. Alla ricerca dell’inconscio, degli spazi sconosciuti, di cui si temono demoni e indefinito.
Un atto teatrale oltre l’atto, in “Lost Bodies in Utopian Places”, serie che rappresenta personaggi come la raccoglitrice di perle, il raccoglitore di capelli e la sveglia umana; nessuno di loro compie le proprie gesta, sono tutti alla ricerca di una “nuova carriera”, un potenziale passatempo, un nuovo piano per loro. La società è cambiata anche per loro, è tempo di reinventarsi. Solo rimanendo fermi potranno trovare una risposta, come i tempi in cui abbiamo vissuto.
Gea Politi, Cristiano Seganfreddo: I tuoi lavori sembrano avere una mano infinita che continua a dipingere, come se non giungesse mai a una fine. Quando capisci che un tuo lavoro è effettivamente terminato?
Guglielmo Castelli: Quando può camminare con le sue gambe. Quando riesce ad avere un bilanciamento di struttura sia in costruzione che in cromatica, ma che in qualche modo abbia concluso la narrazione che volevo esprimere.
GPCS: Parti prima dalla narrazione o dal dipinto?
GC: Innanzitutto parto dal disegno dove “butto dentro cose”. Il progetto di un’intenzione è quello che più mi interessa. In quei disegni c’è l’intenzionalità di quello che tento di esprimere tramite la narrazione, non c’è l’intenzione del dipinto. La pittura viene in un secondo momento e infatti tutti i bozzetti iniziali sono in bianco e nero. Non faccio mai prove cromatiche. La tela è uno spazio scenico dove accade qualcosa. È un restringimento di un campo di azione, la costruzione di elementi all’interno della tela. Il quadro non è mai come il bozzetto iniziale in quanto tendo ad aggiungere degli ostacoli che in qualche modo limitano la lettura o la narrazione stessa, ma aggiungono storia. Voglio sempre inserire un elemento disturbante all’interno della tela. L’opera è finita quando riesco a mantenere un determinato livello di cacofonia e di giustapposizione.
GPCS: Prima abbiamo parlato della tua formazione scolastica. Quello che ci interessa è che non c’è un modo di definire il tuo lavoro, ma ogni singolo frammento ha una sua narrazione, una sua forma di esistenza e non di pre-esistenza. Tu, Guglielmo, da dove arrivi?
GC: Arrivo da quel momento che è l’attimo prima e l’attimo dopo. Arrivo da un’attrazione per le cose che sono state abbandonate e indefinite. La pittura non l’ho mai studiata, è arrivata per caso. Arrivo da un tempo più lento, più familiare, dove le cose venivano spiegate e metabolizzate in un certo modo. Non ho una focalizzazione ben precisa, come le luci nelle case quando sei in treno.
GPCS: C’è un punto in cui si crea un incidente nel tuo lavoro?
GC: Esiste il punto di incidenza tra ciò che vorrei rappresentare e come vorrei realizzarlo, non formalmente ma in termini di contenuto. Non faccio un lavoro concettuale, tento di fare un lavoro che vedo e che sento, che gli altri, nella loro interpretazione, possano vedere a loro volta.
GPCS: È come se ci fosse una sospensione, una pausa che si sedimenta. Rimane un’attesa di un movimento che si genera dentro, come nella poesia dove frequenti le parole, qui frequenti immagini che diventano emozioni. Oltre la letteratura, hai rapporto anche con la poesia?
GC: No, perché mi spaventa molto. Forse ha un’immaginazione troppo potente per me. Se leggessi delle parole non le abiterei in quel momento lì, forse riuscirei ad esserne ospite e ad accettarne l’ospitalità solo dopo averne raffigurato una parte diversa. Forse la poesia mi prefissa degli immaginari.
GPCS: Ci sono dei soggetti in particolare che ti inseguono?
GC: In questo periodo il paesaggio. Dal momento in cui ho capito che questa idea di figurazione arriva tramite un’idea di astrazione, il paesaggio è un altro tipo di rappresentazione. L’idea di un atto calmo in uno spazio chiuso.
GPCS: Le tue opere prendono la forma di una performance continua sia fuori che dentro il lavoro. Spesso i tuoi lavori sembrano usciti da atti performativi presi anche dalla realtà. Hai mai pensato di realizzare performance sia come supporto alla tua ricerca, sia come lavoro finale?
GC: Il quadro funziona se rappresenta un qualcosa che abbia una sua dinamica e al contempo una continuità. La sospensione di questi corpi che sono in bilico mostra una specie di imprevedibilità. Ciò che mi segue realmente è la pittura ed è molto complicato dare forma a questo. Creo delle forme che sono difficili da realizzare anche dal vivo e non avrebbero lo stesso impatto e valore. In campo teatrale-cinematografico esisteva la figura del trovarobe. Il trovarobe aggiungeva gli elementi mancanti. Io con la pittura faccio la stessa cosa in modo da aggiungere elementi per quel famoso acting che non necessariamente andrà a buon fine.
GPCS: Hai un’eleganza al di fuori di questi tempi, quasi drammatica, in un mondo che l’ha dimenticata. Arrivi con uno sguardo che incrocia subito tante altre epoche e altri valori, come se li volessi superare. Le epoche, i secoli, l’arte, il tuo rapporto con il tempo e questo tempo, come lo vedi?
GC: Lo vivo in modo abbastanza claustrofobico e non sono particolarmente a mio agio. Tanti elementi che rappresento fanno parte dei ricordi della mia storia. Una storia di amore puro soprattutto. Forse vorrei abitare gli spazi che creo. La pittura crea sedimentazioni, e in quelle sedimentazioni cerco di mettere un po’ di grazia. Forse rappresento ciò che vorrei abitare.
GPCS: C’è un immaginario che vorresti rappresentare e che al momento non ti riesce?
GC: Più di un numero di corpi umani in una rappresentazione singola non riesco a farli. Non parlo della tecnica ma parlo dell’equilibrio che menzionavo prima. La solitudine che ho costruito negli anni ha dinamizzato la pittura.
GPCS: Prima hai detto che durante la pandemia sei quasi rinato. Nel 2021 hai partecipato a rassegne importanti come la Quadriennale di Roma, hai iniziato a lavorare con Mendes Wood, e avuto collaborazioni interessanti come con Valentino Haute Couture. Potresti definire il 2021 un anno di rinascita?
GC: In un periodo dove sembrava che tanti dovessero dimostrare di essere migliori, io ho capito che dovevo essere migliore del “me pre-Coronacene”. Forse ero troppo statico e approcciavo delle dinamiche in modo diverso. Questo mi ha permesso di tentare anche in campo pittorico e creare cose che non avevo mai fatto. Sono riuscito a capire il mio limite chiudendomi nel mio studio. Ho ampliato anche i miei orizzonti, cercando di trasferire una parte più scultorea o installativa nei miei lavori, in modo da estendere la mia pratica nella pittura.
GPCS: La moda. Questa tua capacità di gestire i piani, la composizione, un’attenzione maniacale al dettaglio senza perdersi dentro, la visione d’insieme contrapposta. Proporzioni, alternanze, composizioni sovrapposte, diversi media: la moda appunto per Guglielmo. Cosa ha lasciato il tuo percorso iniziale nella moda?
GC: Ha lasciato posture. Ho cercato di scoprire quegli spazi di grazia e di gioco. La moda mi ha dato la possibilità di trovarmi, pur essendo così diversa. La certezza è il lusso di chi non è coinvolto. In periodo adolescenziale non si è certi di nulla. La moda è stata un grimaldello per scardinare e restituire tentativi a dei segni che avevo assorbito nel tempo. Ammiravo la potenza nella Battaglia di San Romano di Paolo Uccello e le battaglie dei suoi dettagli: tra piume, lance dai colori sgargianti e broccati fluidi. Quando riporto nella mia pittura degli elementi estetici o dei dettagli apparentemente volti a un processo per così dire “decorativo” da cui attingo – a volte dalla storia del costume – attuo un processo di innesco/disinnesco. Vi è allo stesso tempo una composizione che l’occhio deve riconoscere, a lavoro finito, che tracci uno sguardo bilanciato, elegante, che abbia una capacità narrativa forte. Al contempo quell’atto decorativo è una costrizione voluta e inserita sui miei corpi: quelle trasparenze di calzini inamidati, scarpette di vernice e berretti da marinaretto sono storie, ma anche limiti. Barriere intenzionali in cui il corpo si avvinghia, si distorce, si comprime e si riformula per non scomparire. Le divise dividono, le uniformi uniformano ma i corpi, all’interno, sono spazi di potenza. Forse la mia pittura è come un insieme di cartamodelli assemblati e scartati.
GPCS: Trovi che ci sia ancora una grande differenza tra arte e moda oggi?
GC: Ad oggi si sono uniformate entrambe. Forse prima si invidiavano come settori e invece ad oggi non credo ci sia molta differenza. Probabilmente si scardinerebbero anche più facilmente. Oggi si amplificano contemporaneamente, riempendo gli spazi dell’una e dell’altra creando un dialogo.
GPCS: Quali sono gli artisti che guardi di più per la tua pratica?
GC: Più che altri artisti guardo altri ambiti, come il design. Quando osservo un altro elemento d’arte, ho bisogno di avere un contraltare che in qualche modo mi parli di altro, in quanto spesso crea un circuito utile. Quado ho letto Il buio oltre la siepe di Harper Lee, ho capito l’utilità di quegli spazi dimenticati e bui. Nel buco di quell’albero c’è una vita intera ed è quello spazio che vorrei abitare, probabilmente quei piccoli spazi contengono un modo immenso. Da quell’indefinito, tra quegli spazi bui, tento di iniziare una trama.
GPCS: Errori composti e compositivi. Margini, frange, slabbrature, colature. Una tensione che lavora sul confine…
GC: Cosa accade dello spazio che fino a poco prima ci competeva? Che cosa lasciamo di noi negli altri quando ce ne andiamo? E lo spazio della pittura non dipinto, quello intorno, quello non scelto dall’inquadratura pittorica, di chi è? Sono tutte domande che insorgono in me durante il processo pittorico e dove l’errore composto è ospite prezioso. Il limite, il confine, non è altro che ciò che rimane di quanto ci capita. Siamo il risultato dei nostri errori, che ricalibriamo nello spazio concesso.
Ho sempre trovato molto più interessante il “laterale”, quello che c’è dall’altra parte. Ma per sognarlo bisogna prima definire e comporre in maniera perfetta quello che c’è in primo piano, altrimenti tutto il resto rimane indefinito. Questa è la pittura per me; una messa a fuoco di tempi scomposti. Perché quel buio che Lee rappresenta ci ritorna nella sua potenza grazie a tutta la luce della vita che due piccole esistenze si apprestano a scoprire passo dopo passo.
“Due pupazzi col sapone, un orologio rotto con la catena, un coltello e le nostre vite”.