Ci sono almeno tre motivi per cui è oggi lecito perdersi nell’arte. Il primo coincide con la complessità “biologica” che la rende materia viva dai confini mobili; il secondo si riferisce alla libertà con cui ogni narratore ne gestisce la grammatica; e infine il terzo risiede nell’esperienza temporale generata dalle due precedenti ragioni. Tra la mutua influenza di questi stimoli, la storia dell’arte si è sempre orientata ossessivamente. Non si è arresa neanche quando, davanti all’entropia degli anni Settanta, spazi, mezzi e tempi esplodevano in narrazioni tutt’altro che lineari. Da allora, per esempio, la nozione di intertestualità descrive qualsiasi oggetto culturale in cui si riconosca “l’assorbimento e la trasformazione di un altro”1 e, a prescindere dal suo abuso contestuale – dalla semiotica alla scienza, dall’archeologia all’arte –, ancora si presta a codificare il magma irregolare che descrive la produzione artistica contemporanea o a dimostrare, con riferimento a una specifica esperienza di tempo, le estreme conseguenze dell’intermedialità.
Da qualche decade infatti, un singolare tipo di autore si è distinto per l’interesse nel ri-mettere-in-azione, parzialmente o completamente, volontariamente o ingenuamente, citazioni e allusioni di altri episodi culturali. All’incrocio delle più disparate sfere mediali, l’artista contemporaneo si è fatto narratore di fonti eteronome esplodendo l’unità del contesto originale e riordinandone le componenti con estrema flessibilità.
Tralasciando il valore sensibile dell’operazione – che si può dire incida sulla fortuna storica del riferimento e insieme gli conferisca nuovo vigore anche quando si tratti di condizioni bizzarre –, questo processo di re-enactment coincide con un aggiornamento dei mezzi espressivi dell’opera d’arte e, in una certa misura, genera una particolare ambiguità temporale.
Fin dalla sua prima apparizione infatti, la condizione intermediale ha insistito su una nuova morfologia culturale che, in virtù della sovrapposizione e compresenza di linguaggi, si è aggiornata al punto di produrre atti artistici ibridi o, addirittura, iperoggetti2. Va da sé che, di pari passo e in maniera anche più incontrollata, una simile fluidità ha contribuito alla definizione di una altrettanto caotica configurazione temporale, oggi più che mai esplosa in andamenti plurimi e rizomatici.
Del resto, l’andamento con cui l’artista frequenta il tempo ha sempre previsto incursioni nella storia dell’arte con lo scopo di recuperare sintomi e indizi che, nel segno di una agognata originalità, venissero ri-elaborati in versioni più o meno inedite. Questa naturale oscillazione tra passato e presente però, ha oggi raggiunto riflessioni tanto libere da considerare soprattutto l’ordine sincronico della storia; l’artista attinge da un’infinita serie di momenti “discreti” e li riordina con il filtro della propria immaginazione. Sia su un piano temporale che mediale infatti, il montaggio di questi frammenti visivi prevede la loro ri-messa-in-azione come anacronie o eterocronie3 che hanno pari dignità rispetto all’originale.
Con buona pace della mitologica linearità dunque, ecco la morfologia del tempo nell’arte inter- o iper-mediale: un’eterogeneità di raggruppamenti culturali che coesistono nello spazio della stessa opera pur emergendo dalla sovrapposizione di sfere mediali appartenenti a diverse traiettorie storiche.4
Ogni nuova produzione sembra sfidare le classiche periodizzazioni e, ormai in frammenti, risponde a un tempo granulare e “quantico” di cui l’artista contemporaneo è ancora soggetto narrante. Egli produce infatti un’esperienza senza tempo5 in grado di condensare nel suo presente tanto i prodotti del passato quanto quelli del futuro.
Una metafora astronomica, ancora valida pur se mutuata dalla metodologia warburghiana, ben descrive l’atteggiamento con cui l’artista si muove tra le sue immagini o lo spettatore tra la loro ricomposizione. Entrambi si orientano nella stessa maniera con cui l’astronomo scruta lo spazio, cioè riconoscono nel firmamento visivo nuove configurazioni senza mai perdere di vista le regole che lo governano; e da caos percettivo a cosmo ordinato, lo scopo è quello di produrre narrazioni coerenti che, per l’arte, coincidono sempre più con una prospettiva 6 senza apparenti direzioni dominanti.
Non è certo un caso che la Biennale dei Tempi Interessanti, quella appena conclusa, abbia voluto premiare i tanti messi-in-scena da Haris Epaminonda in VOL. XXVII (2019). L’origine dei suoi frammenti è tanto nascosta che solo un orientamento estetico suggerisce la costruzione di una mitologia contemporanea dal sapore sincretico: non a caso, posizionato senza gerarchie in una scenografia appartata e sospesa, un calco dell’inconfondibile cavallo di Fidia è simbolo dell’Occidente quanto bonsai, tessuti e marmi policromi lo sono dell’Oriente.
La memoria del singolo oggetto si opacizza davanti a quella del suo prossimo e, illuminati dalla scelta di Epaminonda, ognuno si manifesta in una costellazione che rende nuovamente valida la metafora astronomica. O archeologica, se qui si considera l’origine delle civiltà e la nachleben7 delle loro immagini. La sensibilità con cui l’artista si orienta tra questi materiali accoglie la migrazione che hanno affrontato e ricostruisce un nuovo oggetto complesso, meticcio in tempo, spazio e statuto. Ogni sua parte si propone come un afterimage e sostiene i processi di memoria che emergono davanti a un altro found footage, quello video, costruito da Epaminonda per la sede espositiva dei Giardini. Qui, a rincarare la prospettiva intermediale, le immagini, montate sul sonoro di Kelly Jayne Jones, si inseguono con la medesima metodologia associativa riuscendo a restituirne un insolito vademecum iconografico.
Astronomia o archeologia, galassia o scavo, l’atto creativo lavora nuovamente con una morfologia del tempo granulare e caotica rinegoziando, di volta in volta e liberamente, la sua esperienza di movimento e scelta. All’artista che produca conil tempo e nel tempo infatti, spetta sapervisi relazionare con intelligenza e rispetto a prescindere da tutte le formalizzazioni che gli siano concesse. Un’attenzione che non deve intendersi né devozionale né conservativa, ma che ambisce a mettere in movimento la staticità dei riferimenti intercettandone i tratti che ancora li rendono attuali. L’artista contemporaneo infatti adatta la propria operatività concettualmente e contestualmente, aggiorna il valore socioculturale dei materiali che interpella e riempie le lacune della storia moltiplicandone le direzioni.
Nel 2018 la Tate Britain Commission seleziona un nuovo progetto per la consueta invasione contemporanea della Dunveen Gallery e Anthea Hamilton copre l’austera aula neoclassica con un unico pavimento scultoreo che, senza soluzione di continuità, si trasforma in podi e piedistalli per ospitare una parte della collezione permanente. The Squash(2018), lungi dall’esaurirsi in un puro processo di selezione o nella progettazione di uno spazio architettonico, propone piuttosto l’apertura di un archivio di immagini ri-coreografate in una narrazione inedita e potente. La categoria iconografica cui Hamilton si riferisce infatti, il mondo vegetale, condiziona un editing calibrato e intermediale che abbina i bronzi seducenti di Moore, Laurens e altri modernisti, ai corpi floreali dei performer con cui essi condividono lo spazio. Un numero variabile di figure antropomorfe, con teste a forma di grande bulbo, costumi simil-rococò e motivi vegetali8, abita l’installazione e muovendosi tra le sculture ne mima, dove possibile, le pose. L’embodiment attivato dai performer – con ritmi lenti e senza alcuna regola predefinita – sembra proprio descrivere il processo di rinegoziazione e immaginazione con cui l’arte (e i suoi narratori) associano i prodotti e le esperienze di tempo nella contemporaneità. Basti pensare che l’immaginario di Hamilton è costruito a partire da un unico riferimento d’archivio – uno scatto di Daniel Kramer al ballerino Erick Hawkins vestito con un costume simile alla Kachina Doll della Cultura Hopi – con cui l’artista si relaziona creando, insieme al direttore creativo di LOEWE, Jonathan Anderson, i costumi di The Squash. Anacronie ed eterocronie non sono più, solamente, qualità connaturate alle sequenze di frammenti migranti, ma risiedono nel loro slittamento mediale e nella modalità con cui sono ri-messi-in-scena in un nuovo presente.
A tal proposito, solo due anni prima, la stessa Dunveen Gallery aveva ospitato il progetto Historical dances in an antique setting (2016). Due quinte sceniche chiudevano le estremità dello stesso spazio longitudinale e si ponevano in continuità cromatica con i lati lunghi simulando, disegnate, le due facciate della Tate Britain – progettate a distanza di cent’anni da Smith e Stirling –. Insieme all’ambizione di amalgamare gli stili architettonici con l’austerità del padiglione neoclassico, lo scopo di Pablo Bronstein era quello di rendere il disegno architettura e viceversa; e dunque, lavorando su una scala approssimativamente realistica, attivare quel medium così “classico” attraverso l’installazione e la performance.
Perché la sovrapposizione di mezzi espressivi riuscisse al massimo grado infatti, lo spazio tra le due facciate era abitato da un gruppo di danzatori chiamati a eseguire i passi di uno strano barocco. L’ampiezza ridimensionata dei movimenti tradiva l’eccesso del riferimento storico approdando a quello di altri linguaggi che, dallo sperimentale al tradizionale, dal voguing al kabuki inscenavano motivi estetici ormai trascorsi insieme a sensibilità ancora contemporanee. L’eclettismo architettonico, così come il tratto apprezzabilmente camp, erano la riprova di un personalissimo orientamento tra i prodotti della storia ma al contempo ribadivano che il criterio di scelta operato dall’artista (dunque il suo movimento tra i frammenti) non seguisse la sola, ineluttabile direzione della storia verticale, ma fosse capace di pescare referenze dal suo stesso presente, in senso trasversale.
Il lavoro di Bronstein permette infatti un’ultima specifica: là dove si radunino tanti frammenti caotici e ognuno riporti la propria esperienza di tempo, è ammessa una morfologia compressa che descrive la contemporaneità come lo spazio di diverse con-temporalità. Anche solo intuitivamente, l’operazione di questi re-enactment gioca sulla mescolanza e sul meticciato con la stessa consapevolezza di esserne potenzialmente preda. Anzi, suscitata l’attenzione di un qualsiasi esecutore presente o futuro, la direzione dell’operazione artistica potrebbe essere potenzialmente rimanipolata e spinta su nuovi immaginari. A prescindere dall’estrazione temporale delle sue componenti infatti, ogni opera d’arte, anche la più compatta, si presenta alla storia nella sua stratificazione congenita, riproduce memorie “biologiche” passate e presenti e infine esplode le cronologie separando elementi solitamente uniti o unendo elementi generalmente separati9.
Se mai una tendenza entropica dovesse essere dunque confermata, l’ordine della contemporaneità sarà sempre meno filologico e l’immaginazione colmerà plausibilmente le lacune della storia. Non solo, ne creerà di nuove e non rinuncerà mai a un movimento errante e vagabondo tra tutti i materiali a sua disposizione.
Tra i tanti segni che ci orientano nell’arte, quelli del tempo sono i più traditori.