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17 Luglio 2015, 10:18 am CET

Haroon Mirza di Rahma Kazam

di Rahma Kazam 17 Luglio 2015
An_Infinato, 2009. Materiali vari inclusa una versione non editata del video Memory Bucket (2003) di Jeremy Deller e del film in 16mm Cycles #1 (1972-77), 16mm film di Guy Sherwin. Courtesy Lisson Gallery, Londra/Milano.
An_Infinato, 2009. Materiali vari inclusa una versione non editata del video Memory Bucket (2003) di Jeremy Deller e del film in 16mm Cycles #1 (1972-77), 16mm film di Guy Sherwin. Courtesy Lisson Gallery, Londra/Milano.
An_Infinato, 2009. Materiali vari inclusa una versione non editata del video Memory Bucket (2003) di Jeremy Deller e del film in 16mm Cycles #1 (1972-77), 16mm film di Guy Sherwin. Courtesy Lisson Gallery, Londra/Milano.

Attraverso l’assemblaggio di mobili usati, fonti di luce, filmati video e apparecchiature audio, l’artista inglese Haroon Mirza realizza installazioni audio-visive che esplorano le evoluzioni socioculturali e le loro relazioni con il suono e la musica. In questa intervista, il vincitore del Leone d’argento (il premio dedicato ai giovani artisti) all’ultima Biennale di Venezia parla del suo lavoro e del suo legame con la pittura del Rinascimento, l’Arte Minimal e le percussioni africane.

Rahma Khazam: Puoi dirci qualcosa sulle due opere che hai portato in Biennale, The National Apavilion of Then and Now (2011), all’Arsenale, e Sick (2011), al Padiglione centrale ai Giardini? 

Haroon Mirza: The National Apavilion of Then and Now si interroga sulla sua durata seminando dubbi sul concetto di nazionalità e sul sistema dei padiglioni nazionali, che un giorno diventeranno obsoleti. Sick, invece, allude alla crisi dei sistemi di potere che controllano l’economia. Entrambi i lavori occupano uno spazio triangolare: la mia idea era di fare un’installazione ai Giardini e poi creare un’opera delle stesse dimensioni all’Arsenale. La figura del triangolo è comparsa nel mio lavoro come conseguenza del posizionare forme cubiche ai loro angoli (la sezione diagonale trasversale di un cubo è un triangolo) oppure dall’utilizzo di dischi fatti a mano con triangoli ritagliati per creare suoni ritmici. Così, sebbene i due lavori presentati a Venezia appaiano e si percepiscano in maniera molto differente, li considero due lavori fortemente collegati l’uno all’altro.

RK: Anche le forme circolari ricorrono molto spesso nel tuo lavoro. Nell’opera dell’Arsenale, per esempio, lo spettatore si ritrova sotto un cerchio di luce. Come è nato questo lavoro?

HM: Così come sono solito lavorare con materiali preesistenti, allo stesso modo faccio riferimenti al lavoro di altri artisti. Il cerchio, in questo lavoro, è una diretta allusione alla maniera in cui Tintoretto ha realizzato le aureole nei dipinti del Rinascimento. Esse cambiano da artista ad artista e il loro colore e la loro intensità spesso mutano a seconda dell’individuo raffigurato. Quando mi sono stati commissionati questi lavori sono andato a vedere alcuni Tintoretto alla National Gallery di Londra e ancora una volta mi sono fissato sulle aureole. La mia idea originaria era di utilizzare un triangolo, ma dopo aver visto i Tintoretto aveva più senso utilizzare un cerchio, che poi è stato caricato di ogni sorta di simbolismo, spirituale o altro. Inoltre, l’elettricità che passa attraverso le luci al led è amplificata per produrre suono in modo che tu possa ascoltare e vedere l’illuminazione.

RK: Quando realizzi i tuoi lavori, viene prima il suono o l’aspetto visivo? Quali dei due ritieni più importante? 

HM: Nessuno è più importante dell’altro. È come al cinema, in cui questi due elementi coesistono in armonia. In un certo senso, il mio lavoro può essere considerato come un modo alternativo o complesso di creare musica: io do vita a suoni a partire da strumenti elettronici e oggetti, molti dei quali fanno parte della composizione acustica. Ma al contempo, il modo in cui questi oggetti sono disposti riassume e racchiude molte correnti della scultura.

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The National Apavilion of Then and Now, 2011. Materiali vari, veduta dell’installazione presso la Biennale di Venezia. Courtesy la Biennale di Venezia. Foto: Francesco Galli.
The National Apavilion of Then and Now, 2011. Materiali vari, veduta dell’installazione presso la Biennale di Venezia. Courtesy la Biennale di Venezia. Foto: Francesco Galli.

RK: A quale di queste correnti ti senti particolarmente vicino? 

HM: Penso che le tre correnti più importanti siano il ready made, rappresentato dall’opera di Duchamp, il gestuale, perché mi riferisco al modo in cui gli oggetti sono presentati, e lo spaziale — pratiche che considerano lo spazio intorno agli oggetti importante quanto gli oggetti stessi, come ci dimostra Fred Sandback.

RK: … il quale è stato una delle tue fonti di ispirazione per la tua mostra recente alla Lisson Gallery. Qual è il rapporto tra la sua arte e la tua?

HM: Per me Sandback è stato uno dei minimalisti più importanti perché è riuscito a tracciare piani e volumi nello spazio nel modo più stringato possibile, utilizzando dei fili. Così, quando mi sono confrontato all’interno di uno spazio con un materiale simile, come il filo metallico e i tubi al led, mi è venuto in mente che questo problema era stato già risolto per me da Sandback.

Stage Fright (in collaborazione con Laura Buckley e Dave Maclean), 2009. Veduta dell’installazione. Courtesy Lisson Gallery, Londra/Milano.
Stage Fright (in collaborazione con Laura Buckley e Dave Maclean), 2009. Veduta dell’installazione. Courtesy Lisson Gallery, Londra/Milano.

RK: Il suono trasforma la nostra percezione di uno spazio. È questo ciò che ti interessa? 

HM: Apprezzo il fatto che il suono occupi lo spazio come nessuna altra cosa. Così come i liquidi, che possono permeare lo spazio, il suono bypassa ogni cosa, sia essa materiale o visiva. Ma il suono è anche emotivo, essendo plasmabile in molti modi diversi. Sono anche interessato al cambiamento percettivo che si verifica quando passi dal “sentire” un rumore all’“ascoltare” una musica, che non è troppo diverso dal “vedere” un’immagine al “guardare” un dipinto.

RK: Cosa puoi dirci del ruolo sociale della musica? Uno dei tuoi obiettivi sembra esplorare l’impiego della musica come uno strumento di controllo sociale.

HM: Sì, sono d’accordo. Per me è importante anche rendere l’atto dell’ascoltare un’opera significativo come guardare a essa e renderla così meno “visivocentrica”.

RK: La tua mostra alla Lisson mostra filmati video di percussionisti kenyoti impegnati in una performance rituale. Che significato hanno le percussioni per te?

HM: Si tratta di una tradizione afro-islamica, un rituale tribale strettamente legato al corteggiamento e infine al sesso — ecco perché la legge islamica proibisce ogni rapporto con la musica. Sono sempre stato affascinato dall’atteggiamento contraddittorio di rinnegare la musica e al contempo di utilizzarla.

RK: Anche la tua installazione Anthemoessa, 2009, presso SMART Project Space ad Amsterdam, ha a che fare con la religione, sottolineando sia la sua capacità di seduzione sia il bisogno per i credenti di rinunciare ai loro ideali e ai loro desideri. Per quale ragione sei interessato a queste tematiche?

HM: Ho fatto un lungo viaggio in Pakistan nel 2007-2008, durante il quale ho ricercato i luoghi della musica della cultura pakistana. Intendo il mio lavoro come un contributo alla comprensione di queste tematiche. Il ruolo dell’artista è di sollevare problemi, identificare le contraddizioni, creare consapevolezze, piuttosto che trovare risposte.

(Traduzione dall’Inglese di Daniela Ambrosio).

Rahma Khazam è critico d’arte. Vive e lavora a Parigi.

Haroon Mirza è nato nel 1977 a Londra, dove vive e lavora.

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