“The Company” è la prima mostra a Roma di Huma Bhabha, e arriva dopo un percorso della notissima artista di origini pakistane già piuttosto lungo. Il suo linguaggio è andato formulandosi nel solco delle pratiche legate al Post-Human e all’anti-monumentalità – dunque due momenti nodali della storia dell’arte recente, a cavallo tra anni Novanta e Duemila, che possono offrire il fianco a rapide e approssimative definizioni – senza risultarne troppo invischiato. La mostra individua e sottolinea alcune specificità che da sempre appartengono alla sua poetica: un’idea di scultura veloce (uno dei suoi materiali d’elezione è da sempre il polistirolo, che permette una certa agilità compositiva), tendente alla performatività e a un flusso di coscienza che fa agglutinare attorno alle sue figure uno spettro di rimandi molto ampio – dall’arte primitiva e arcaica afferente a tradizioni diverse, fino al fumetto e al cinema horror. Una scultura che si articola attraverso l’assemblaggio di materiali diversi, di scarto e inevitabilmente fragili (il polistirolo, il sughero, il legno, i frammenti e i detriti urbani), una grammatica “disgiuntiva”, che evidenzia i passaggi e gli scambi energetici secondo un montaggio di “elementi eccentrici legati tra loro ma in un equilibrio instabile” (R. Krauss). E ancora: un’idea di scultura dipinta, tamponata e segnata dal colore, talvolta martoriata, che vive di contrasti e mette in equilibrio una tensione alla costruzione e un equivalente senso di distruzione; un’idea di disegno capace di dare vita a figure o a grandi volti, che si impongono per la loro presenza scultorea, o attitudine a occupare idealmente lo spazio. In mostra ci sono alcuni disegni di grande formato realizzati attraverso una gestualità ampia, dimessa e aggressiva, a partire da immagini fotografiche o che inglobano frammenti di fotografie. “The Company” tiene separate queste due polarità della ricerca dell’artista, scultura e disegno/collage, assegnando loro due ambienti separati ma contigui, capaci di richiamarsi reciprocamente e rilanciarsi energeticamente.
La scultura di Huma Bhabha tende alla compostezza classica, e insieme, alla disgregazione. E alla bidimensionalità, alla sacralità totemica, privilegiando una visione frontale, a tu per tu con lo spettatore. Così il grande ambiente ovale della galleria viene interpretato dall’artista secondo un disegno lineare, che articola lungo un asse centrale la presenza delle sculture, disposte in fila come una specie di esercito. Lo spettatore scopre dunque i lavori trovandoseli di fronte, uno dopo l’altro, separatamente, attraverso una progressione che parte con Prophet and loss (2019), due rudimentali mani realizzate in argilla, e trova il suo culmine in Beyond the river (2019), una figura che sembra sostenersi grazie a una sottile asta che la puntella in corrispondenza del basso ventre.
“The Company”, inoltre, si dispiega idealmente da un lavoro (Untitled, 2019) realizzato a partire da una fotografia scattata alcuni anni fa ai Musei Capitolini durante un breve viaggio (mostra la statua di un cane di fattura tardo egizia, e alle sue spalle due kouroi greco arcaici) che l’artista ha sovradipinto solo sui bordi, tracciando il contorno di una testa cornice/sipario, che sembra reinquadrare l’immagine e situare atmosfericamente la mostra.
Il titolo di quest’ultima deriva invece da un noto racconto di Borges – La lotteria di Babilonia, 1941 – e fa riferimento al gruppo, alla comunità segreta (quella che sinistramente controlla, attraverso un gioco sadico, le sorti di una società immaginaria) composta da identità ambigue, multiple e inafferrabili come le statue di Huma Bhabha. Ho detto “statue”, sì, intenzionalmente.