Per una bambina alta un metro e quindici, i marciapiedi di New York negli anni Ottanta sembravano una vorticosa sinfonia di una molteplicità di corpi in movimento. Tra le sagome di donne in tailleur e scarpe da ginnastica con capigliature ondeggianti al ritmo di passi accelerati, quelle di uomini in giacca e cravatta con ventiquattrore alla mano, e volti corrugati, si confondevano tanti giovani indefinibili con andature inclassificabili dalle modalità di interazione inconsuete.
Per quanto la convivenza di queste poliedriche esistenze mi sembrasse naturale, il mio sguardo non era attratto dai passi degli “office folks” ma dai gesti fuori dagli schemi, dalle grida di quei giovani che potevano essere i fratelli o sorelle maggiori dei miei compagni di scuola (pubblica). I passi di danza che li animavano erano fuori dall’ordinario, scatti sinuosi, acrobatici ed eleganti, capaci di seguire il ritmo della musica che usciva dai grandi stereo portatili. Movimenti coreografati, che anche una bambina di cinque anni avrebbe riconosciuto come diversi da quelli che le appartenevano, codici linguistici da cui era esclusa: improvvisazione, istinto, vita. Quei giovani non erano diversi ai miei occhi, erano solo speciali.
E poi si cresce, si studia, si costruisce una coscienza critica e si capisce che ciò che si è vissuto era davvero speciale, che quei ragazzi danzanti all’angolo dell’East Village nel 1986 – che hai giurato a te stessa di non dimenticare mai – stavano costruendo una lingua, gettando le basi per uno statement politico e sociale nello spazio pubblico, ancora poco incline all’ascolto. Sorprendente è poi se a riaprirti gli occhi su una memoria lontana è il lavoro di un artista italiano (cresciuto in quell’Italia che al mio rientro mi era sembrata così tradizionale e uniforme) che ti catapulta all’interno di un mondo complesso il cui immaginario riesci a riconoscere e che ti rammenta che quelle performance erano necessarie per la costruzione di una realtà non univoca ma in trasformazione, “con” la danza e “come” la danza, intesa come linguaggio in movimento.
Throwing Balls at Night di Jacopo Miliani, racconta questo e molto altro. La performance, staged per la prima volta a Londra nel 2016 da vita a una crasi tra tempi e mondi dove quel che emerge è in realtà la storia della danza come linguaggio capace di costruire un’alternativa alle tradizionali definizioni del sé, uno spazio in grado di liberare le vera essenza di un’identità. Ispirato a Jeux – un poème-dansé frutto della collaborazione tra Claude Debussy, Sergei Diaghilev e Vaslav Nijinsky – che descrive l’incontro fortuito di tre giocatori di tennis in un parco di notte, che impossibilitati a riprendere il gioco, si intrattengono in un corteggiamento reciproco che lascia spazio a momenti di ambiguo erotismo, Throwing Balls at Night fonde l’assoluta modernità della tecniche coreutiche e delle affermazioni sottili ma rivoluzionarie di Nijinsky, con il Vogueing degli anni Ottanta newyorkesi. Così dopo qualche minuto di ascolto di Debussy, i danzatori iniziano a muoversi al ritmo di MikeQ, leggenda del ballroom sound. Diva Miyake-Mugler Louboutin, Prince Maya, Benjamin Milan e Eve Stainton, i perfomer con cui ha lavorato Jacopo Miliani per l’occasione, scaldano il lungo catwalk allestito per la serata a forza di movimenti, gesti, pose.
Time is not a problem for me.
This Manifesto is on present time, but I relate to the past and to the future.
Nothing is original for me.
My memory is in the future.
There is a future only if I am concentrate on the present.
I like things from the past. *
Come Miliani stesso dichiara in Throwing Balls at Night, “la storia di Jeux incontra il Vogueing mischiando l’idea di Shade con la faida interna del balletto, lo scandalo omosessuale di Dhiaghilev, Nijinsky con il concetto di Gender Fluid, il tennis con il pericolo da sempre insito nella dimensione della Youth”.
La performance permette di penetrare nella poetica e nella pratica dell’artista, instancabile ricercatore, capace di interpretare e posizionare nel presente teorie di genere, la loro raffigurazione e il sostrato critico-politico. Così, a una lettura attenta del lavoro, capace di andare oltre il coinvolgente effetto scenico, si incontrano fonti chiavi e discorsi che con forza iniziavano a farsi sentire all’indomani della crisi mondiale dell’AIDS, della caduta del Muro di Berlino, in un momento in cui paura e libertà si fondono per dare spazio a quella necessità di ri-affermarsi. In Throwing Balls at Night si riconosce così Paris is Burning di Jennie Livingston (1990) che propone uno dei primi sguardi esterni sui ball di New York, serate in cui i componenti delle Houses della città, porti sicuri per le minorities della scena gay e transessuale, partecipavano a concorsi di ballo alla ricerca della realness (ovvero la capacità di essere “reale”), momento in cui il perfezionismo raggiunto dal Vogueing legittima un’esistenza.
Nel lavoro di Miliani sono evidenti anche gli studi elaborati dai Performance Studies di Richard Schechner, che affrontano le potenzialità insite nella performance, intesa come spazio per uscire da una modalità unilaterale e tradizionale della definizione del sé, destabilizzando le teorie binarie di esteriorità / interiorità, per narrare una storia alternativa del corpo in cui l’azione svolge il ruolo di protagonista (Performance as a Political Act: The Embodied Self, di Randy Martin e Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity di Judith Butler escono entrambi nel 1990).
Dance is a form of revolution.
I am a revolutionist.
My revolution is a dance.
I don’t dance but I also dance. *
La danza, come ogni forma di rivoluzione, genera uno sconvolgimento, una trasformazione. Sfuggendo l’idea di definizione unica, Miliani è convinto che la vita, come la performance che la rappresenta, sia impossibile da codificare e classificare. Il suo lavoro non è una illustrazione della realtà ma un’espressione di tutte le potenziali esistenze inscrivibili nel qui ed ora. Miliani non è performer dei suoi lavori e neppure coreografo, non impone sequenze di passi ma segue la libertà dell’essere in ogni sua sfumatura. Collabora fluidamente con i performer che ripresi su video o agenti nello spazio, accolgono la delega loro affidata a interpretare le suggestioni e le visioni dell’artista nel momento presente. Così ogni opera si definisce nell’esperienza del fare attraverso nuove modalità di costruire linguaggi, non sempre riconoscibili nell’immediato, ma che accarezzano la pelle provocando una risposta viva, proprio come ogni esistenza. Posizionarsi fuori dal linguaggio d’altronde provoca disagio.
Choreography is a language for me.
Like “I” before “E” except after “C”
You are going to teach me.
I am going to teach you.
I don’t know how to say it.
My language is not communication.
I understand even I am not speaking your language. *
Nuovi giochi linguistici vengono costruiti in ogni suo lavoro, come nel suo video Deserto (2017), che riflette proprio sulla possibilità di parlare di identità multiple. Un primo piano su due mani in movimento, intervallate da uno stacco di danza e accompagnate da una voce narrante, invoca il deserto come luogo dove la sabbia non assume mai una forma definita, proprio come le molteplici identità queer, sfuggenti e indefinibili. Deserto evoca la scena finale di Teorema (1968), ma anche Le avventure di Priscilla, Regina del Deserto (1994) di Stephan Elliot, film che condividono lo stesso protagonista, Terence Stamp, in ruoli diversi: il transessuale Bernadette in un viaggio rivelatore, in Le avventure di Priscilla e l’Ospite, un misterioso estraneo tra angelo e demone che seduce un’intera famiglia, insinuando la crisi nei codici assodati della società borghesi in Teorema. Nel video Miliani scrive una nuova narrazione combinandola con estratti di testi dai due film, che presentano l’indistinzione tra identità reali e fittizie, smantellando il tentativo di parlare di ruoli e posizioni. Partendo dal concetto di falsificazione sociale del sé, che Pier Paolo Pasolini aveva precocemente diagnosticato e rappresentato, Deserto ci parla delle sfumature dell’Io e dell’impossibilità di ingabbiarle.
Le opere video TEOREMA TEOREMA TEOREMA e Hand-Performance (entrambe 2019) seguono il naturale sviluppo della ricerca di Miliani su questo filone. Matyouz, danzatore, Master of Ceremony e commentatore dei più importanti Vogue Contests in Europa è il protagonista dei due lavori. Ritorna il Vogueing, con il suo ormai conclamato bagaglio di stile contemporaneo che ha rivoluzionato una modalità di “fare” danza, di “rappresentarsi” con la danza di “essere” con la danza. In TEOREMA TEOREMA TEOREMA la voce e l’interpretazione di Matyouz riprendono nuovamente i discorsi pasoliniani, richiamando l’idea di “intervista-verità” con cui si apre il film del 1968. Matyouz parla di famiglia, dell’Ospite, di identità, di genere, di amore, di sguardi, di seduzione, di performance, di aspettative, di rivoluzione, in un ritmo di parole e pensieri che si rincorrono, si incrociano, si compenetrano e lasciano intendere che ciò che siamo è in realtà solo una delle tracce dell’esistenza, quella del qui ed ora che ha sempre la possibilità di cambiare. Così come in Deserto, anche in Hand-Performance le mani del performer raccontano una storia fatta delle pose plastiche del Vogueing, dove evidente a questo punto sembra essere la fusione tra linguaggio verbale e visivo e il valore politico della danza.
La danza, spazio di espressione corporea, si rende nella sua definizione di linguaggio in movimento, teso alla rivoluzione del contemporaneo, dove la prassi della club culture ha affermato tanto quanto l’investigazione filosofica: a New York negli anni Ottanta come in Italia negli anni Novanta (ricordiamo che il Cocoricò di Riccione ospitò le prime azioni della neonata Societas Raffaello Sanzio). Legittimata come forma di lotta, spazio conquistato dal corpo capace di modellare in maniera sempre diversa la complessità identitaria, Jacopo Miliani ci rammenta come la danza sia in verità un sistema linguistico che permette al soggetto di generare l’indicibile, trascendendo ogni confine di genere, di classe, di politiche sessuali, di nazionalità. Consapevole che il linguaggio della performance permette alla quotidianità di deragliare fuori dai binari delle caselle verità / finzione, di stupire nel suo essere agente, immediato e diretto, nonché determinante di una condizione, dove l’affermazione dell’io avviene tra i potenziali innumerevoli sé.
You and me.
Me and you.
I always understand even when I do not understand.
I say: ‘Please dance!’ *
*Estratti da Jacopo Miliani, Manifesto for a dance spectator, gennaio, 2018.